Annotazioni all’Epistola ai Romani cap. 7:7-25 di Domenico Iannone Il brano di Rom. 7:7-25 si presta a sette interpretazioni o opzioni esegetiche: Paolo nel brano di Rom. 7:7-25, starebbe trattando dell’esperienza dei cristiani in generale, inclusi i migliori e più maturi. Il brano documenterebbe il conflitto esistente tra carne e spirito, caratterizzante il cammino di ogni credente su questa terra; secondo tale interpretazione il v.9 tratterebbe dello stato del credente prima della conversione (verbo al passato), ed immediatamente dopo questa (verbi al passato sino al v.13), per poi concentrarsi sul conflitto interiore del credente nel momento in cui la Legge di Dio pone in questione il suo peccato (verbi al presente vv.14-23). Tale conflitto è destinato a risolversi definitivamente, solo quando Cristo completerà, con il proprio ritorno e la trasformazione dei corpi mortali, la salvezza già avviata con la giustificazione (verbo al futuro v.24). Questa interpretazione, è sostanzialmente errata, in quanto sovrappone al brano dell’espistola ai Romani, che ha per oggetto il valore della Legge in relazione alla giustificazione, il conflitto tra carne e spirito, un tema che trova accoglienza in altre epistole di Paolo. Paolo non starebbe facendo riferimento all’esperienza dei credenti in generale, ma soltanto alla propria in particolare. Ovviamente tale interpretazione si distingue dalla precedente solo a livello stilistico: Paolo invece di usare il “noi”, utilizzerebbe il “me”. Il brano è una testimonianza delle vicende dell’apostolo, precedenti la conversione: il riferimento è dunque al passato di giudeo di Paolo, inteso alla luce della sua presente esperienza cristiana. Quest'interpretazione si distingue dalla prima, solo per il diverso rilievo dato al v.9, che diviene un particolare biografico dell’esperienza religiosa dell’apostolo, il quale sarebbe vissuto senza obblighi nei confronti della Legge mosaica probabilmente fino all’età di 13 anni, momento in cui ogni ragazzo ebreo si confrontava con la cerimonia del Bar-Mitwa, in occasione della quale si veniva ufficialmente introdotti all’obbligo dell’osservanza della Legge. Il brano di Rom. 7:7-25, avrebbe a che fare con l’esperienza di Paolo, prima della propria conversione; tale condizione passata, è analizzata con la mentalità di un ebreo osservante della Legge. Il brano di Rom.7:7-25 deve intendersi come uno sviluppo di Rom.7:5 (allo stesso modo di come Rom.8 risulta essere uno sviluppo di Rom.7:6), dal punto di vista di un giudeo osservante, come era Paolo prima di incontrare il Signore. Il brano non vuole essere una testimonianza della lotta tra carne e spirito, interna alla coscienza del credente, quanto piuttosto un insegnamento sull’inefficacia della Legge mosaica per quanto concerne la possibilità di giustificare. Il soggetto del brano non è dunque il credente, quanto piuttosto la Legge. Il v.8 afferma “senza la Legge il peccato è morto”, che costituisce una ripresa di quanto affermato in Rom.5:13 “il peccato non è imputato quando non vi è Legge”, ed in Rom. 7:9 “E ci fu un tempo, nel quale, senza Legge vivevo; ma, venuto il comandamento, il peccato prese vita ed io morii”. Si ha dunque a che fare con un brano auto-biografico, probabilmente il riferimento è proprio al Bar-mitwa, anche se la presenza o meno di tale cerimonia, non è strettamente necessaria all’argomentazione. Il v.12 “Talchè la Legge è santa e il comandamento è santo, e giusto e buono”, che secondo l’interpretazione 1), era ritenuta essere la confessione di un cristiano, deve piuttosto essere intesa come la confessione di un giudeo pio, quale era il fervente fariseo Saulo, precedentemente alla conversione. Il v.14 “Noi sappiamo infatti che la Legge è spirituale; ma io sono carnale, venduto schiavo al peccato”, segna il passaggio dai verbi al passato, ai verbi al presente, tale cambiamento di tempi verbali non è, di per sè, molto significativo, poichè lo stesso avviene nel passaggio del verbo dal passato al futuro in Rom.6:5 e dal passato al presente in Rom.6:6, ad indicare momenti concomitanti della giustificazione. Il v.14 “Noi sappiamo infatti che la Legge è spirituale: ma io sono carnale venduto schiavo al peccato”, non può essere riferito al credente in Cristo dopo le affermazioni di Rom. 6:7,18, secondo cui il credente non è più schiavo del peccato. Il brano di Rom.7:15-23, deve essere inteso come testimonianza della potenza del peccato nella vita di uno zelante giudeo, che pur avendo conoscenza della Legge mosaica, non riesce a compierla in modo spirituale. Il v.24 “Misero me chi mi trarrà fuori da questo corpo di peccato”, testimonia ulteriormente della lontananza di tale giudeo da Dio. Solo in Cristo il “corpo di morte è annullato” (Rom. 6:6). Il v.25b appare essere un riepilogo di tutto il brano di Rom.7:7-25. Questa interpretazione è quella che concilia tutti i dati testuali e contestuali. Esistono ancora tre opzioni interpretative, che alla luce di quanto detto, sono senz’altro da scartare: Paolo starebbe considerando l’esperienza di un generico ebreo non-cristiano, intesa in una prospettiva cristiana. Tale interpretazione non tiene conto del dato auto-biografico del v.9. Paolo starebbe trattando dell’esperienza di un ebreo non-cristiano, intesa in prospettiva giudaica. Si tratta dell’esperienza di un cristiano, che sta vivendo ad un livello molto basso di vita cristiana, in cui molta parte dell’osservanza della volontà di Dio è trascurata. Tale credente tenta di resistere alla propria concupiscenza, facendo affidamento esclusivamente alle proprie forze. Vedi il punto 4) per la confutazione di tale esegesi.