Christianus sum. Christiani nihil a me alienum puto

La dottrina della persona di Cristo

(di Domenico Iannone)


Ebionismo

Dal seno del cristianesimo di provenienza giudaica (denominato Nazareismo e caratterizzato dall'osservanza della legge mosaica, dalla credenza nella messianicità e divinità di Gesù, dall'uso del vangelo di Matteo in ebraico, dal proselitismo in mezzo ai giudei, dall'attesa di un regno millenario di Cristo sulla terra), sorse il movimento ereticale degli Ebioniti. Il loro nome non proviene come supponeva Tertulliano (Praescr. Haeret. 13) dal nome del supposto fondatore della setta, Ebione, ma piuttosto da un termine ebraico significante "povero".
Origene supponeva che tale nome indicasse la povertà teologica che i membri della setta avevano della dottrina del Cristo e della legge. Probabilmente gli Ebioniti riguardavano se stessi come i poveri di spirito dei quali Gesù aveva parlato.
Secondo Epifanio, Ebione cominciò a diffondere le proprie dottrine in mezzo ai credenti che si rifugiarono a Pella in seguito alla distruzione di Gerusalemme; secondo Egesippo (citato da Eusebio nelle Storie Ecclesiastiche), l'ebionismo sarebbe nato dopo uno scisma provocato da un tale Tibuzio che dopo la morte del vescovo di Gerusalemme Simone, intorno al 107, si era visto rifiutare il vescovato.
La caratteristica dell'ebionismo era il tentativo di collocare il cristianesimo all'interno del quadro delle credenze del giudaismo.

L'interna della setta si distiuguevano due correnti: l'ebionismo comune che riteneva Gesù essere il Messia promesso, il Figlio di Davide, e il Legislatore, ma intendendolo come un mero uomo, non diversamente da Mosè o Davide, effettivamente nato da Giuseppe e Maria. Gesù avrebbe ricevuto l'incarico di essere il Messia, al suo battesimo al Giordano, quando lo Spirito Santo si lego a lui. Ritenevano, in spregio al contenuto dell'Epistola ai Galati, che la circoncisione e l'osservanza dell'intero rituale della legge mosaica fosse necessario per ottenere la salvezza. Paolo l'apostolo era considerato un eretico, proveniente dal paganesimo e diventato cristiano per motivi immorali, tutte le sue epistole erano eliminate dal canone del NT.

L'altra corrente presente in seno all'ebionismo era quella "monastica", affine all'essenismo, che prendeva il nome di Elkesaitismo (dal nome del fondatore Elxai o Elkasai). Secondo Epifanio, la setta si affermò durante il regno di Traiano, nella regione attorno al Mar Morto. Questi settari possedevano un loro libro sacro, che secondo Origene e Ippolito (Philosophumena), conteneva in germe quello che sarebbe stato il sistema ebionita pseudo-Clementino (gnosticismo).
La setta guardava a Gerusalemme come al centro del mondo religioso e intendeva Cristo come un mero uomo, signore degli angeli e di tutte le altre creature; lo Spirito Santo era inteso essere femmina, praticavano circoncisione e battesimo, rigettavano Paolo l'apostolo e giustificavano il rinnegamento della fede in tempo di persecuzione.

 

Il Docetismo

Vanno sotto il nome di docetismo (dal greco dokein, sembrare, apparire), una serie di indirizzi dottrinali, aventi come tratto comune quello di interpretare la storicità dei fatti della vita del Cristo come simbolo o visione.
I Docetisti ritenevano che la persona del Cristo, proprio perchè divina, non possedesse in realtà un corpo fatto di materia, ma che questo fosse solo una specie di apparenza (dokew), creata a beneficio della debolezza spirituale dei discepoli.
Cristo pertanto non possedendo un corpo, non avrebbe realmente patito e tantomeno sarebbe morto sulla croce. Era questa una concezione che prendeva le proprie mosse tanto dal pensiero neo-platonico dell'epoca, secondo il quale la materia era considerata fondamentalmente cattiva, quanto dall'azione moralizzatrice dello stesso cristianesimo, che esaltava il trascendente a spese del contingente.
Queste correnti di pensiero si rinvigorirono con lo gnosticismo e le sue idealizzazioni soteriologiche. Si conoscono i nomi di coloro che si fecero banditori di tali eresie: Cerinto, Menandro, Saturnilo, e in seguito Marcione di Sinope (fine I° sec.), Cerdone, Basilide e Valentiniano (epoca di Adriano e Antonino Pio). Tutti questi indirizzi negavano la contemporaneità delle due nature del Cristo.
Sono note le confutazioni che di tale orientamento ereticale fecero Ireneo e Ignazio di Antiochia.
Agli inizi del III° sec. sorsero con analogo indirizzo i Pauliciani in Armenia, i Bardesaniti in Edessa, i Manichei che si propagarono sino al Medio Evo con i Bogomili, gli Albigesi e i Catari.

Il Monarchianesimo

Nel 3° sec. d.C. con il nome di monarchianesimo, riappare l'eresia docetista ed ebionita del 2° sec.
Secondo i Monarchiani, è necessario preservare il concetto veterotestamentario di monoteismo. Il Dio degli ebrei e dei Cristiani è uno diversamente dalla moltitudine di dei delle religioni politeiste. La conseguenza in campo cristiano era di esaltare l'unità di Dio a spese della divinità del Cristo.
Secondo i monarchiani "dinamici", l'ala più razionalista del movimento, Cristo è null'altro che un uomo nel quale è venuta ad abitare una speciale potenza (dunamis) divina. Cristo era solo un uomo nel quale abitava la divinità. Il rappresentante di tale concezione, Teodoto di Bisanzio venne espulso dalla chiesa di Roma nel 190 d.C. Anche Paolo di Samosata può essere considerato un monarchiano dinamico (vedi il capitolo a lui dedicato).
Secondo l'altra alla del movimento, quella del monarchianesimo modalista, il Figlio e lo Spirito erano concepiti come aspetti fenomenici o nomi o maschere (in quest’ultimo senso era usato il termine prosopon) che avrebbe assunto Dio, detto anche il Padre, nelle proprie rlazioni con gli uomini; solo il Padre a differenza delle altre sue manifestazioni possiede l'immutabilità, e soltanto Lui esistere come individuo (upostasis).
L’elemento divino nel Cristo non possedeva una personale sussistenza ma era soltanto una manifestazione dell’unica e somma divinità, tale manifestazione era definita uiopator ; le manifestazioni o modi-aspetti del Figlio e dello Spirito erano successivi e temporanei, e su tutta l’economia della rivelazione dominava il Padre.

Ne risultava , come ebbe a notare Atanasio, che il Figlio dopo l’ascensione e dunque la cessazione della sua missione terrena, aveva cessato di esistere, ed era stato riassorbito nella divinità.
Dunque come invisibile, ingenerato e impassibile, Dio era Padre, come visibile generato e sofferente, Lui era Figlio.
Tale concezione mirava a preservare tanto il Figlio, quanto lo Spirito da qualsiasi idea di emanazione dal Padre (neo-platonismo) o subordinazionismo.
Secondo alcuni teologi di questa scuola, il Padre stesso era morto sulla croce (Patripassiani), secondo altri (Prassea, contro il quale scrisse Tertulliano) Gesù non possedeva un'anima umana e il suo corpo era una sorta di apparenza da lui stessa creata (tale tendenza era senz'altro docetista).
La prima elaborazione di tale concezione appartiene a Noeto di Smirne (200-25), che secondo Ippolito che lo avversò, l'avrebbe sviluppata a partire dal pensiero del filosofo Eraclito.
Sabellio vissuto a Roma intorno al 198-220 introdusse la persona dello Spirito Santo all’interno dello schema monarchiano modalista pre-esistente. Suo scopo era quello di ribattere alle obiezioni rivolte al modalismo di tipo patripassiano, che affermava essere stato il Padre a soffrire e morire sulla croce. Egli affermava esservi due elementi formanti la deità del Cristo, l'elemento del Padre e quello del Figlio, entrambi si incarnarono nel Cristo, per separarsi alla crocefissione, l'elemento divino del Figlio rimase nel Cristo, mentre quello del Padre tornò nei cieli.
Il Padre non potendo persistere in tale scissione mandava allora lo Spirito con lo scopo di riportare il Figlio a sè.
Oltre l'evidente fantasiosità dell'intera costruzione si noti la tendenza tipica della teologia ereticale occidentale antica, come anche di quella ortodossa, di considerare lo Spirito inferiore al Padre e al Figlio.

La dottrina del Logos

Il primo tentativo di esprimere in modo intellettualmente soddisfacente la fede nella Trinità è dovuto ai pensatori di lingua greca (Aristide, Giustino Martire, Atenagora, Teofilo). Tale tentativo fu associato alla dottrina del Logos.
Del Logos si parlava non solo nelle scuole filosofiche greche, ma anche nei circoli giudaici influenzati dalla versione greca detta dei LXX, nella quale appariva che il termine ebraico HOKMA designante la sapienza divina veniva tradotto in greco, SOPHIA , la Sapienza. Quest'ultimo termine era associato dal sentire comune delle classi colte al greco LOGOS, indicante la ragione umana o divina in generale.
E appunto di tale concezione del Logos si servirono gli apologisti cristiani per tentare di gettare un ponte sull’abisso che sempre secondo il pensiero del tempo, profondamente permeato di neo-platonismo, separava il Dio trascendente e atemporale, dal mondo del tempo e dello spazio; Dio era impossibilitato secondo tale concezione ad entrare direttamente in contatto con il mondo , decideva dunque di dare forma al proprio Logos immanente, al fine di stabilire tale relazione, dando così avvio alla creazione, e in seguito sostenendo tramite esso tale creazione.
Gli apologisti cristiani identificarono il Logos con Cristo, Egli era considerato eterno allo stesso titolo dell'Uno trascendente, infatti non risultava concepibile che Dio-Padre potesse aver fatto mai a meno della propria sapienza.
Gli apologisti misero in rilievo che Cristo in quanto Logos era eterno, ma nel contempo essendo stato creato prima di ogni altra cosa, risultava finito (non onnipotente, non onnipresente etc.), e subordinato a Dio Padre, anche se degno di essere adorato allo stesso titolo.

Nel vangelo di Giovanni, il termine Logos è subordinato al termine Figlio, pertanto in questione non è un'astratta ragione metafisica, quanto piuttosto il concreto e storico uomo Gesù; al contrario presso gli apologisti che seguono la dottrina del Logos, la relazione Logos-Figlio appare rovesciata, il Logos appare essere la ragione universale posseduta da tutti gli uomini e in qualche maniera definibile in maniera autonoma dalle Sacre Scritture e dalla figura del Cristo.
Importante a tal riguardo è l'attività di Tertulliano, che può essere collocata all'apice della controversia monarchiana.
Il Padre e il Figlio sono distinti come persone, non per separazione o divisione, ma in virtù di una distinzione di attività (economie). In linea con la dottrina del Logos, il Padre esprime il Figlio e allo stesso titolo anche lo Spirito per utilizzarli come mediatori nella creazione e nel reggimento del mondo.
Solo nel Padre è presente la pienezza della deità, mentre il Figlio gode solo di riflesso di tale privilegio. Anche se Tertulliano non definisce il Figlio "creato", pensa ovviamente a ciò quando suppone vi fosse un tempo passato in cui il Figlio non era e che in fututo il Figlio sarà riassorbito dalla divinità.
In polemica con i monarchiani, Tertulliano conia il termine "Trinità" (Triplicità+Unità), per indicare che la deità è "una substantia, tres personae"; Cristo risulta essere composto di due sostanze, la divina e l'umana. L'incarnazione non è una metamorfosi ma un'assunzione di carne, senza che venga con ciò a formarsi un'ibrida mescolanza (De Carne Christi).

La concezione di Origene

Origene basa la sua dottrina dell’incarnazione del Cristo sul concetto neo-platonico di Logos. Dio è Colui che trascende l’universo sensibile, tra Lui e la materia non vi è affinità di sorta, la mediazione è realizzata dal Logos, questi è personale (cioè è una persona diversa da quella del Padre), eterno e divino.
Il Figlio o Logos è generato dal Padre , non per partizione , ma per il tramite di una "generazione eterna", paragonata a quella dello splendore generato dalla luce. Non vi è stato un tempo durante il quale il Figlio non fosse. Il Padre e il Figlio sono due individui (upostasis) numericamente distinti contrariamente a quanto affermavano i monarchiani, ma la loro sostanza (ousia) è assolutamente la medesima, essi dunque sono omousios, hanno cioè la medesima essenza. Nonostante tali precisazioni per Origene il Figlio è subordinato al Padre e talvolta definito "creatura", "secondo Dio", o "Dio" (senza l'articolo sulla base di Giov. 1:1), per distinguerlo dal Padre, che è Dio in un senso assoluto (Dio con l'articolo), autoqeos, Deus per se. Il Padre è anche detto "radice" (riza) e sorgente (phghn) dell'intera Divinità.
Il Figlio diventa una sorta di secondo Dio non intrinsecamente buono e immutabile come il Padre. L’incarnazione del Figlio era poi spiegata facendo riferimento alla celebre dottrina origeniana della preesistenza delle anime: l’anima del Cristo prima dell’incarnazione si era mantenuta pura da ogni peccato diventando intimamente affine al Logos, ciò permise l’unione dell’umano con il divino e la susseguente incarnazione. Pur senza scadere in un esplicito docetismo, (dottrina che afferma essere stato il corpo del Cristo una mera illusione suscitata a beneficio degli osservatori), Origene considera il corpo di Cristo composto di una materia celestiale del tutto dissimile da quella umana. Logos e umanità, pur essendo unite sono comunque virtualmente distinte nella persona del Cristo, e per Origene non può essere affermato che fu l’impassibile Logos a soffrire e morire sulla croce, anzi il Logos pur essendo in Cristo continuava la sua opera cosmica di reggitore dell’universo (è questa una anticipazione dell’extra calvinisticum; tale dottrina è rintracciabile persino in Atanasio cfr. "L’incarnazione del Verbo" ).

Secondo Origene la persona del Cristo risultava essere composta da due elementi il divino e l’umano frammisti al punto che all’ascensione l’elemento umano risultava assorbito completamente da quello divino. Lo stesso corpo del Cristo con l’ascensione avrebbe acquisito una forma più alta di esistenza. Da qui il tentativo di Origene di controbilanciare tale assorbimento della natura umana in quella divina, con un esaltazione almeno verbale, dell’umanità del Cristo glorificato.
Non va infine dimenticato che per Origene ciò che deve ispirare la riflessione e la condotta del credente non è tanto un approfondimento del tema dell'incarnazione e dunque del sacrificio di Cristo sulla croce, quanto piuttosto l'esempio di vita che Gesù ha mostrato nei Vangeli.
Caratteristica del pensiero di Origene ,come anche dei teologi di scuola cappadocia, è quella di pensare la dottrina della Trinità in termini di causalità: il Padre genera il Figlio e da entrambi procede lo Spirito Santo.
Agostino pur non rifiutando tale impostazione, nella sua opera De Trinitate penserà la relazione tra le tre persone della deità in termini non di generazione o processione, ma di inerente e interna necessità, Dio per essere tale deve necessariamente essere inteso come trino.

La dottrina di Paolo di Samosata

Fondandosi sull’AT Paolo di Samosata affermava che nell’uomo Gesù dimorava la divina Sapienza o Logos. Il Logos non andava però inteso come possedente una propria personale sussistenza , non era cioè da intendere come una persona, nè prima, nè durante, nè dopo l’incarnazione, infatti la sapienza di Dio, pur essendo nell'AT personificata per motivi poetici, non è in realtà una persona, così come nell’uomo la ragione non può essere considerata come avente una propria personale autonomia.
La Sapienza era presente in Gesù sotto forma di una sorta di influenza, non difforme dall’ispirazione che dirigeva l’attività dei profeti, l’unica differenza tra l’azione dello Spirito in Cristo rispetto a quella nei profeti era che in Cristo lo Spirito si manifestava in modo più eminente, pur essendo comunque soltanto una qualità.
Per Paolo di S. il Padre e il Figlio sono omousios (appartenenti alla stessa sostanza divina) solo perchè Gesù possiede la stessa Sapienza del Padre. Sostanza ("ousia" ciò che rende una cosa o una persona quello che è) ed ipostasi ("upostasis" nel senso di individuo separato, persona) risultano essere termini sinonimi, infatti la sostanza del Padre non solo non è diversa da quella del Figlio, ma propriamente parlando esiste solo un Dio (Gesù soltanto metaforicamente può essere definito Dio). Apparentemente Paolo di S. sembra individuare nel battesimo al Giordano il momento durante il quale lo Spirito si legò all’uomo Gesù.

La differenza di questa concezione rispetto a quella di Origene è che per quest’ultimo il Logos-Spirito esisteva "ipostaticamente" dunque come persona, prima di tutti i tempi, mentre per Paolo di S. l’elemento personale è solo quello dell'uomo Cristo vissuto durante il primo secolo dell'era cristiana. E’ indubbio che la dottrina di Paolo di S. presentava un uomo che divenne Dio, e non quella di un Dio che si fece uomo.
Il Sinodo di Antiochia nel 268-9, censurò la dottrina di Paolo di S. rigettando l'utilizzo così personale del termine omousios.

La dottrina di Ario

Le origini della controversia ariana possono essere rintracciate tanto negli elementi contraddittori della cristologia dell'alessandrino Origene, quanto nell'antagonismo tra la teologia antiochena e quella alessandrina. Infatti Ario dichiara di essere seguace della dottrina di Luciano di Antiochia, che a propria volta si dichiarava discepolo di Paolo di Samosata.
La controversia nacque quando Alessandro vescovo di Alessandria, sulla base della dottrina di Origene della eterna generazione del Figlio (ripresa in seguito da Atanasio e dal simbolo niceno, e interpretata come denotante la generazione di una persona della stessa sostanza, dalla sostanza del Padre, e non di una persona dalla sostanza differente per un atto della volontà del Padre), dedusse la omousia o consustanzialità del Figlio con il Padre.
Ario un presbitero della stessa città dal 313, facendo uso di strumenti intellettuali assai modesti, sulla base di un'estremizzazione della concezione subordinazionista di Origene, accusò Alessandro di essere un sabelliano, e prese ad insegnare che Cristo pur essendo il creatore dell'universo, era in realtà a sua volta una creatura e dunque non veramente divino.
Ario parte da uno strettissimo monoteismo: Dio è immutabile, uno, infinito, ingenerato e trascendente rispetto al nostro mondo tanto da non aver alcun contatto con esso.
Dio non è Padre da tutta l'eternità, ma soltanto dal momento in cui crea il Figlio; costui dunque pur essendo prima dei tempi non è ingenerato, ma è la prima e più eccelsa creatura di Dio, creato dal nulla onde espletare la funzione di creatore del resto della creazione.
Ciò significa che non vi è identità di essenza tra il Padre e il Figlio (xenos tou uiou kat ousian o pather), e se quest’ultimo è chiamato Dio o Logos, tali titoli possiedono solo un valore onorifico e appartengono solo al Padre.
Infatti solo il Padre possiede in modo eminente ed essenziale il Logos, e per tale motivo può parteciparlo al Figlio. Con ciò Ario desiderava giustificare l'adorazione di cui era fatto segno Cristo, dall'accusa di essere una forma di politeismo.
Ma se il Logos-Figlio è creato esso è anche mutabile, Ario nel suo Thalia ("Banchetto", un'opera in prosa e poesia di cui si conservano alcuni frammenti nelle opere di Atanasio) afferma che : "Il Logos stesso è mutabile (preptos); è per sua stessa scelta che rimane buono, finchè lo desidera; ma nel caso dovesse decidere diversamente, lui potrebbe cambiare". Solo perchè Dio conosce in anticipo la futura perfezione morale del Figlio, gli dona gloria.
Per Ario, il Figlio si è incarnato divenendo Gesù Cristo, ma la sua anima è rimasta divina. Per tale motivo il Gesù di Ario è incapace di essere un reale mediatore tra Dio e gli uomini.
Gli ariani introducevano un elemento mitologico all’interno del Cristianesimo, reminiscenza degli eroi e dei semidei delle leggende pagane.

Ario, nonostante i risultati a cui il concilio di Nicea mise capo, fu assolto dall'accusa di eresia da un sinodo ariano tenutosi a Gerusalemme nel 335, egli era già stato rintegrato nel proprio ruolo di vescovo dalla chiesa di Costantinopolo. Morì all'improvviso nel 336, mentre stava guidando una processione dal palazzo imperiale alla chiesa degli Apostoli, all'età di oltre 80 anni, sembra per un attacco di colera, attendendo ai propri bisogni corporali. La sua morte fu vista come un giudizio da parte di Dio, altri la intesero come il risultato di un avvelenamento, altri ancora come il risultato dell'eccessiva gioia per la propria reintegrazione.
L'arianesimo riguadagnò terreno a partire dal 350 d.C., contando nel periodo tra il 353-378 sull'appoggio imperiale.
Sorse allora un gruppo più radicale di ariani che presero il nome di Eunomiani (da Eumonio m.395, il successore dell'ispiratore del movimento Aeto m.370) e Anomoiani.
Costoro erano convinti che contrariamente a quanto facevano i vescovi ariani a corte, le dottrine ariane non dovessero essere confessate di nascosto.
Gli eunomiani, ritenevano di dover difendere le dottrine ariane facendo uso strettamente della sola logica. Essi insistevano sul fatto che il Dio Supremo fosse il solo ad essere ingenerato e contrariamente a quanto Ario aveva affermato, conoscibile tramite un'analisi razionale del concetto di "ingenerato". Il vero nome di Dio era dunque l'Ingenerato, tale nome a preferenza di altri, ne rivelava la vera essenza.
Il Figlio al contrario, essendo "generato" (come dichiarava il simbolo niceno), possedeva un'essenza completamente differente (anomoios) rispetto a quella del Padre.
Dall'utilizzo dell'espressione anomoios,il gruppo assunse il nome.
Gli ariani di tutte le tendenze, erano soliti compilare delle "catenae" (raccolta) di brani biblici che utilizzavano per la controversia, composte da quei passaggi della Scrittura che sembravano o porre il Cristo nella medesima categoria della cose create, o attribuire al Logos incarnato: crescita, mancanza di conoscenza, tristezza e altre affezioni umane e stati mentali, o insegnare una subordinazione del Figlio al Padre.

Atanasio leggeva tali brani riferendoli all'apetto umano della persona del Cristo; egli accusava gli ariani di incorrere nell'errore giudaico di ritenere il divino e l'umano incompatibili. Infatti i Giudei si chiedevano come potesse Dio, diventare uomo, e morire sulla croce? Gli ariani affermavano qualcosa di non dissimile, come può Cristo, che era uomo, essere allo stesso tempo Dio?
La Scrittura dichiara che Cristo: come Logos e immagine del Padre, è realmente divino, e che divenne veramente uomo per poterci salvare.

Atanasio contro-argomente utilizzando tutti quei brani scritturali che presentano Cristo attribuendogli titoli , attributi , opere, dignità divine . L'esegesi di Atanasio contiene molti tratti fantasiosi, dovuti alla tendenza della teologia antica ad usare il metodo allegorico.

L'esegesi degli ariani era in generale negativa e razionalizzante.
I loro principali argomenti rimarcavano l'irrazionalità dell'interpretazione ortodossa, e l'irriconciliabilità con lo stretto monoteismo dell'Antico Testamento, e inoltre il pericolo di sabellianesimo e gnosticismo.

L'Arianesimo presenta due dei, un dio increato ed uno creato, un dio supremo e l'altro secondario, scadendo nel politeismo. Cristo è una creatura e nel contempo il creatore del mondo, come se una creatura potesse essere datrice di vita. A Cristo viene assegnata un'esistenza pre-mondana ma nel contempo gli si nega l'eternità, supponendo dunque un tempo prima della creazione del Cristo. Viene negata la mutabilità di Dio e nel contempo , negando la generazione del Figlio, si nega anche l'eterna paternità di Dio Padre.

Semi-ariani

Il gruppo dei semi-ariani adottavano una posizione, a loro modo di intendere, di mediazione rispetto a quella degli ariani e dell'ortodossia espressa al concilio di Nicea.
Essi si dichiaravano seguaci di Eusebio di Cesarea (che al concilio di Nicea aveva proposto una confessione di fede, che non era stata approvata).
Ritenevano che a Cristo meglio si adattasse il termine di homoi-ousion, (di essenza simile a quella del Padre) prendendo le distanze tanto dal termine nicenohomo-ousion quanto dall'ariano hetero-ousion.
Insegnavano che Cristo non era una creatura, accettando la Sua coeternità con il Padre, ma gli attribuivano un'essenza simile ma non uguale a quella del Padre, rendendolo in tal modo subordinato a quest'ultimo.
Essi accettavano senz'altro l'asserzione del simbolo niceno a proposito dell'eterna generazione del Figlio, ma concordavano con gli ariani a proposito della negazione dell'identità di essenza.
In tal modo non soddisfacevano nessuno dei due schieramenti contrapposti, ed erano accusati da entrambi di incoerenza.
Il partito di Atanasio, affermava che la "similarità" può essere affermata a proposito di attributi e relazioni, ma non di essenze o sostanze; queste possono solo essere identiche o differenti. Può essere affermato che un uomo è simile ad un altro, ma ciò è detto rispetto alla forma esteriore, non alla sostanza. Se il Figlio, come i semi-ariani ammettevano, procede dall'essenza del Padre, egli deve anche possedere la medesima essenza.
Sull'altro fronte gli ariani contestavano che a rigor di logica non può esservi un medio tra l'essere creato e quello increato, se il Padre è il solo essere increato, ogni cosa esterna a Lui, incluso il Figlio, è creata, e conseguentemente possiede un'essenza diversa da quella del Padre.
Pressati da entrambi i fronti, i Semi-Ariani prima del concilio di Constantinopoli passarono nel campo dell'ortodossia.

Il Concilio di Nicea e il contributo di Atanasio

Il cosidetto Credo (o Simbolo) di Nicea (o Niceno), fu messo a punto nel 325 d.C. nella città imperiale di Nicea, la seconda città della Bitinia (attuale Turchia),durante un concilio convocato dall'imperatore Costantino e presieduto da 318 vescovi, allo scopo di ristabilire la pace nella chiesa, turbata dalla disputa sollevata da Ario, a proposito della natura di Gesù Cristo.
Che Cristo fosse Dio (in Giustino nel Dialogo con Trifone, troviamo per la prima volta la definizione che avrà tanto successo in seguito, Gesù è "Dio e uomo") era opinione comune. Purtroppo dietro a tale consenso si nascondevano molte forme di eresia.

Il Cocilio di Nicea mise capo alla seguente confessione di Fede:

Crediamo in un unico Dio, Padre Onnipotente, che ha fatto tutte le cose visibili e invisibili.
E in un unico Signore, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, generato dal Padre, cioè tratto dalla sostanza del Padre.
Dio da Dio e luce da luce, Dio vero da Dio vero.
Generato non fatto, della stessa sostanza del Padre.
Attraverso Lui ogni cosa è stata fatta, le cose celesti e quelle terrestri.
A motivo di noi uomini, per la nostra salvezza, si abbassò, si incarnò e si fece uomo, patì e risorse il terzo giorno, ascese a cieli da cui tornerà per giudicare i vivi e i morti.
E (crediamo) nello Spirito Santo.
Chi afferma che vi fu un tempo quando Lui (il Figlio) non era, oppure che Egli non era prima di essere generato, o che Lui era fatto dal nulla o da altra ipostasi o sostanza, o che il Figlio di Dio è creato o mutabile o alterabile: è condannato dalla santa chiesa cattolica.

Nel Credo di Nicea l’espressione "fatto carne" era spiegata con la frase "fatto uomo", onde escludere l’opinione degli ariani che ritenevano che Cristo possedesse un corpo umano ma non un’anima umana.
Il Figlio non era inteso essere "simile" (omoiousia) nella sostanza al Padre, ma uguale a Lui a tutti gli effetti (omousion).
Il termine ousia (sostanza) come anche il termine fusis (natura), nel linguaggio filosofico del tempo indicavano non l'individuo (la persona), ma il genere o la specie, non l'unum in numero, ma l'ens unum in multis. Tutti gli uomini partecipano della medesima sostanza, pur essendo come persone differenti l'uno dall'altro.
Omousion in senso grammaticale stretto, differisce tanto da monousion (una sola sostanza), quanto da toutousion (la medesima sostanza), significando non identità numerica, ma eguaglianza di essenza o comunione di natura tra individui differenti.
Il termine omousion era particolarmente odiato dagli ariani (il partito rappresentato da Eusebio di Nicomedia), in quanto non scritturale, di sapore sabelliano e materialistico. L'accusa di sabellianesimo era possibile, non essendo stata ancora teologicamente fissata la distinzione tra sostanza (ousia) e persona (upostasis), così che omousion poteva facilmente essere confuso con l'unità di persona.
Infatti nel credo niceno, "persona" (upostasis) e "sostanza" (ousia) erano intesi come sinonimi.
Il termine upostasis definirà i tre differenti modi di sussistenza dello stesso indiviso e individibile intero, che nella Scrittura è chiamato Padre, Figlio e Spirito.
Il Padre e il Figlio sono intesi non come unum in specie, ma unum in numero. Le due persone sono relate alla sostanza divina non come due individui alla loro specie, ad esempio come Abramo e Isacco alla specie uomo.
La sostanza divina è intesa come assolutamente indivisibile a causa della propria semplicità, e assolutamente inestesa e intrasferibile a causa della sua infinità, diversamente dalla natura umana che può essere divisa e moltiplicata per generazione.
Se la sostanza del Padre e del Figlio (e chiaramente anche quella dello Spirito) fossero "similmente" divine, esse si escluderebbero a vicenda o si limiterebbero, Dio non potrebbe essere inteso come infinito o assoluto. L'insegnamento di Nicea a tal proposito può essere sintetizzato non come insegnante un'essenza divina e tre persone, ma piuttosto un'essenza divina in tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito non possono essere concepiti come tre persone separate.

Anche Atanasio (arcidiacono di Alessandro di Alessandria), ebbe qualche difficoltà ad adottare il termine omousion proprio per la possibilità di un'interpretazione nel senso della dottrina dei Sabelliani.
Ario partendo dal presupposto che Dio fosse immutabile, uno, infinito, ingenerato e trascendente rispetto al nostro mondo (tanto da non aver alcun contatto con esso), affermava che il Logos pur essendo esistito prima dei tempi non era comunque ingenerato, ma era la prima e piu’ eccelsa creatura di Dio, creato dal nulla onde espletare la funzione di creatore del resto della creazione.
Ciò significava che non vi era dentità di "essenza" o "sostanza" tra il Padre e il Figlio, e se quest’ultimo era chiamato Dio, tale titolo possedeva solo un valore onorifico e poteva appartere propriamente e in modo eminente solo al Padre.
Secondo Atanasio, ne derivava che se il Logos-Figlio era creato esso era anche mutabile e corruttibile. Inoltre si sarebbe potuta verificare anche una proliferazione di semi-dei, Cristo e lo Spirito per cominciare, ma chi assicurava che Dio non ne avrebbe creati altri? Risultava compromessa la stessa unità di Dio.
Nella concezione di Atanasio, Cristo non è il Logos mediatore tra Dio-infinito e il mondo-finito, come nel pensiero di Origene, ma è Dio stesso, il quale non ha problemi a venire in contatto con il mondo.
Il Figlio possiede la medesima essenza del Padre, non per divisione o diminuzione dell'essenza divina, ma per perfetta auto-comunicazione. Tale comunicazione divina di eterno amore è presentata dai padri niceni con la figura della "generazione", la quale è suggerita dalle espressioni: Padre e Figlio, l'unigenito Figlio, il Primogenito.
L'eterna gnerazione è un processo interno all'esssenza di Dio, il Figlio è inteso come generato internamente a tale essenza, mentre la creazione è un atto della volontà di Dio, che mette capo a creature esteriori al creatore possedenti una essenza differente da quella divina.
Il Logos è increato e generato da tutta l'eternità dall'ingenerato Padre. Atanasio interpreta proprio in questo senso il brano nel quale è affermato che l'Unigenito è nel seno del Padre.
Generazione e creazione fanno capo a due concetti completamente differenti.
Il processo di generazione è immanente , necessario e perpetuo, e denota una perpetua comunicazione del Padre al Figlio.
La generazione del Figlio non mette capo ad una nuova essenza (come nel caso della creazione), ma soltanto ad una distinzione ipostatica (distinzione di persona).
Il Figlio è generato non come Dio, ma come Figlio, infatti la sostanza divina come tale è ingenerabile. Stesso discorso per la "processione" dello Spirito, che non ha riferimento all'essenza, ma solo alla persona.
Nella generazione umana, il padre è più vecchio del Figlio, ma nella generazione divina, che avviene nell'eternità, non esiste priorità o posteriorità del Padre rispetto al Figlio.
Atanasio asserisce che Dio genera il Figlio non di sua volontà ma per necessità di natura, ma altrove afferma che la volontà del Padre è in questione nella generazione, in realtà in Dio necessità e volontà coincidono.
Il modo della generazione del Cristo, secondo i padri antichi, era da considerarsi un mistero.

La deità dello Spirito Santo, sebbene inevitabilmente in questione, venne fatta oggetto di una particolare trattazione solo al concilio di Costantinopoli del 381, e dunque il concilio di Nicea si accontentò della sentenza: "e (noi crediamo) nello Spirito Santo".
Il credo conclude con una condanna (anatema), di quanti affermassero una dottrina contraria. Quanti rifiutarono di sottoscrivere il credo niceno (mai prima di Nicea era stato chiesto una simile sottoscrizione), vennero banditi (fu il caso di due vescovi egiziani: Secondo e Teona, che raggiunsero Ario nel suo esilio in Illiria). Tale misure, testimoniano dell'alleanza tra stato e chiesa, che in seguito si spingerà sino a infliggere all'eretico la pena di morte.

La teologia trinitaria post-Nicena trovò espressione nel cosidetto: Simbolo di Atanasio, o come è anche chiamato dalle parole iniziali, il Simbolo Quicumque, esso è una sintesi di scuola agostiniana della dottrina trinitaria:

1. Quicumque vult salvus esse, ante omnia opus est, ut teneat catholicam fidem.

1. Chiunque sarà salvato, prima di ogni altra cosa è necessario che ritenga la cattolica [vera Cristiana] fede.

2. Quam nisi quisque integram inviolatamque servaverit, absque dubio in aeternum peribit.

2. Colui che non mantiene la fede integra e incontaminata, senza dubbio perirà per sempre.

3. Fides autem catholica haec est, ut unum Deum in trinitate et trinitatem in unitate veneremur;

3. Questa è la fede cattolica: che noi adoriamo un solo Dio in trinità, e la trinità in unità;

4. Neque confundentes personas; neque substantiam separantes.

4. Nessuno confonda le persone, nè divida la sostanza.

5. Alia est enim persona Patris: alia Filii: alia Spiritus Sancti.

5. Perchè c'è una persona del Padre, un'altra del Figlio, un'altra dello Spirito Santo.

6. Sed Patris et Filii et Spiritus Sancti una est divinitas: aequalis gloria, coaeterna majestas.

6. Ma la Divinità del padre, del Figlio e dello Spirito Santo è una: la gloria medesima, la maestà coeterna.

7. Qualis Pater, talis Filius, talis (et) Spiritus Sanctus.

7. Come il Padre è, così il Figlio e lo Spirito Santo.

8. Increatus Pater: increatus Filius: increatus (et) Spiritus Sanctus.

8. Il Padre è increato, il Figlio è increato, lo Spirito Santo è increato.

9. Immensus Pater: immensus Filius: immensus Spiritus Sanctus.

9. Il Padre è infinito, il Figlio è infinito, lo Spirito Santo è infinito.

10. Aeternus Pater: aeternus Filius: aeternus (et) Spiritus Sanctus.

10. Il Padre è eterno, il Figlio è eterno, lo Spirito Santo è eterno.

11. Et tamen non tree aeterni: sed unus aeternus.

11. Tuttavia non ci sono tre eterni, ma un eterno.

12. Sicut non tres increati: nec tres immensi: sed unus increatus et unus immensus.

12. Come anche non vi sono tre increati, nè tre infiniti, ma un increato e un infinito.

13. Similiter omnipotens Pater: omnipotens Filius: omnipotens (et) Spiritus Sanctus.

13. Allo stesso modo il Padre è onnipotente, il Figlio è onnipotente, lo Spirito Santo è onnipotente.

14. Et tamen non tres omnipotentes; sed unus omnipotens.

14. Tuttavia non vi sono tre onnipotenti, ma un onnipotente.

15. Ita Deus Pater: Deus Filius: Deus (et) Spiritus Sanctus.

15. Allo stesso modo il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio.

16. Et tamen non tres Dii; sed unus est Deus.

16. Tuttavia non vi sono tre dèi, ma un solo Dio.

17. Ita Dominus Pater: Dominus Filius: Dominus (et) Spiritus Sanctus.

17. Allo stesso modo il Padre è Signore, il Figlio è Signore, lo Spirito Santo è Signore.

18. Et tamen non tres Domini; sed unus est Dominus.

18. Tuttavia non vi sono tre signori, ma un solo Signore.

19. Quia sicut singulatim unamquamque personam et Deum et Dominum confiteri christiana veritate compellimur.

19. Similmente siamo obbligati dalla verità cristiana a confessare ciascuna Persona essere Dio e Signore.

20. Ita tres Deos, aut (tres) Dominos dicere catholica religione prohibemur.

20. Per tale motivo è proibito dalla religiona cattolica affermare che vi sono tre dèi o tre signori.

21. Pater a nullo est factus; nec creatus; nec genitus.

21. Il Padre non è fatto da alcuno; nè creato, nè generato.

22. Filius a Patre solo est: non factus; nec creatus; sed genitus.

22. Il Figlio è dal Padre soltanto, non fatto, nè creato, ma generato.

23. Spiritus Sanctus a Patre et Filio: non factus; nec creatus; nec genitus (est); sed procedens.

23. Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio, non fatto, nè creato, nè generato, ma procedente.

24. Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Filius, non tres Filii: unus Spiritus Sanctus, non tres Spiritus Sancti.

24. Così vi è un Padre, non tre padri, un Figlio, non tre figli, uno Spirito non tre spiriti.

25. Et in hac trinitate nihil prius, aut posterius: nihil maius, aut minus.

25. In questa Trinità nessuno è prima o dopo l'altro, nessuno è più grande o più piccolo dell'altro.

26. Sed totae tres personae coaeternae sibi sunt et coaequales.

26. Le tre Persone sono coeternamente insieme e coeguali.

27. Ita, ut per omnia, sicut jam supra dictum est, et unitas in trinitate et trinitas in unitate veneranda sit.

27. Così che in tutte le cose, come già detto, l'unità nella Trinità, e la Trinità in unità sia adorata.

28. Qui vult ergo salvos esse, ita de trinitate sentiat.

28. Colui che sarà salvato deve così pensare della Trinità.

Va infine ricordato che la controversia trinitaria non si concluse con il Concilio di Nicea, ma durò ancora un cinquantennio per concludersi al Concilio di Costantinopoli nel 381. Possiamo fissare la seguente cronologia della controversia:
1. 318-325 dalla nascita della controversia alla temporanea vittoria dell'ortodossia al concilio di Nicea.
2. 325-361 la reazione ariana e semi-ariana, e il suo prevalere fino alla morte dell'ariano Costanzo (secondo figlio di Costantino il Grande). L'arianismo guadagnò ascendenza in tutto l'impero romano, in forma modificata quella della homoi-ousia o dottrina della similarità di essenza, in opposizione alla Nicena homo-ousia (stessa essenza), e all'ariana hetero-ousia (differenza di essenza).
3. 381 la vittoria finale dell'ortodossia, e il completamento del credo niceno al concilio di Costantinopoli.

La scuola di Antiochia e quella di Alessandria

La dottrina della Trinità e la Cristologia debbono essere intese come strettamente coese. Pertanto alle dispute trinitarie seguirono quelle cristologiche.
La nozione di redenzione, che costituisce la dottrina centrale della teologia cristiana, richiede un Redentore che unisca nella sua persona la natura di Dio e quella dell'uomo, senza confusione. Ciò al fine di permettere alla natura divina di trasmettere tutti i suoi benefici, alla natura umana. Pertanto il Redentore è vero Dio, vero uomo, è una persona, e il divino e l'umano in lui rimangono distinti.

La scuola di teologia di Alessandria, a causa della sua ermeneutica speculativa e mistica, propendeva per una connessione del divino e dell'umano, all'atto dell'incarnazione, tanto stretto da mescolare (sunkrasis) l'umano con il divino.

La scuola teologica di Antiochia (Scuola Siriaca), nella quale prevaleva una esegesi più sobria del testo biblico, inclinava ad una astratta separazione delle due nature, la quale metteva capo ad una inabitazione (enoikhsis) del Logos nell'uomo, o ad un'unione morale (sunafeia). In entrambi i casi, il mistero dell'incarnazione, veniva frainteso e alterato.

Apollinare di Laodicea (362-381 d.C.)

Come detto, dopo il Concilio di Nicea si poneva la questione di come le due nature umana e divina, fossero unite in Cristo per costituire l’unità dell’uomo-Dio Gesù Cristo.

Nelle controversie cristologiche risultava centrale non tanto stabilire se in Cristo vi fossero o meno due nature, ma come esse potessero sussistere unite; in termini più concreti, come ci si dovesse immaginare l’unione della seconda persona divina, ossia il Logos, con l’uomo psico-fisico Gesù di Nazareth. Il pericolo consisteva nell’accentuazione unilaterale sia dell’elemento divino che dell’elemento umano in Cristo.

Dopo Nicea divenne un assioma ritenere che il divino manifestatosi in Gesù possedesse unità di essenza con quello della suprema Deità. A tale divino era associata una reale umanità, tuttavia non si comprendeva a sufficienza come le due nature, quella divina e quella umana potessero unirsi a formare un’unica personalità. Il sentire della Chiesa andava nella direzione di ritenere necessario per la salvezza un Cristo che fosse Egli stesso uomo.
Ma se l’uomo e Dio erano tra loro incommensurabili, come poteva tale abisso essere colmato?

Apollinare di Laodicea, vescovo di Laodicea di Siria (morto attorno al 390), ebbe come scopo quello di sottolineare la completa unità del Cristo senza sacrificare la Sua deità, rifiutando la concezione di quanti (Paolo di Samosata o Fotino) lo ritenevano solo un antropos enqeos, un uomo ripieno di Dio.  Secondo il suo pensiero la natura divina non poteva rimanere distinta da quella umana, per il semplice motivo, condiviso anche dagli ariani, che due nature distinte (la divina e l'umana) non potevano dar luogo ad un’unica personalità, quella del Cristo (si affermava che a rigor di logica, due interi, la natura umana e quella divina, non potevano dar luogo ad un terzo intero, la persona del Cristo); inoltre predicare la piena umanità del Cristo significava attribuirgli anche il peccato.
Apollinare in un primo momento riconobbe a Cristo solo un corpo umano, in una seconda fase, più apologetica del proprio pensiero, affermò che l’anima (sentimenti, volontà ect.) e il corpo di Cristo erano umani, mentre lo spirito umano (ragione), mutabile e fallibile, era stato sostituito dal divino Logos. Pertanto Apollinare poteva affermare che Cristo possedeva una sola natura o una sola essenza quella di uomo-Dio. Apollinare basava tale convinzione sul fatto che la Scrittura insegnasse che Cristo si fosse fatto carne, non spirito.
Ad Apollinare non riusciva concepibile che la immutabilità della divinità potesse avere una vivente relazione con la mutabilità dell’umanità; egli supponeva che l'unità della persona del Cristo e la sua mancanza di peccato potesse essere preservata solo mediante l'escissione dello spirito umano, poichè era opinione comune che il peccato avesse la propria sede non nel corpo e neppure nell'anima, ma nello spirito razionale dell'uomo.
Egli accusava la dottrina della piena umanità di Cristo di limitare la sofferenza espiatrice di Gesù, che attribuiva i patimenti esclusivamente alla natura umana, diminuendo in tal modo le virtù dell'opera redentrice del Cristo: la morte di un mero uomo non avrebbe potuto distruggere la morte stessa.
I suoi oppositori gli imputavano di andare all'altro estremo, e di concepire un dio sofferente e morente, anche se in realtà Apollinare poneva una distinzione nel Logos, questo da una parte si legava all'umanità rendendosi capace di soffrire, dall'altra si manteneva unito a Dio esaltandosi sopra turre le sofferenze. L'unione della natura spirituale con quella corporea in Cristo è illustrata da Apollinare con la mescolanza del vino con l'acqua, dell'anima e del corpo nell'uomo, che sebbene distinti si compenetrano sino a formare una cosa sola. La speculazione di Apollinare non andava oltre la nozione di un
qeos sarkoforos , cioè di un Dio rivestito di carne.
Egli affermava che le Scritture presentano il Logos fatto carne e non Spirito, Dio manifestato in carne ect. Gregorio di Nazianzeno replicava che in questi passaggi il termine sarx (carne) stava ad indicare l'intera natura umana, e non una parte di essa.
Apollinare stabiliva una tale correlazione tra il Logos e la corporeità umana, da trasferirle tutti gli attributi divini, e viceversa. Ne risultava un essere a metà tra uomo e Dio, nel quale una parte divina e due parti umane erano fuse nell'unità di una nuova natura.
Apollinare pur accettando la divinità del Cristo, negava la completezza (teleioths) della sua umanità.

La Chiesa però rifiutò tale speculazione in quanto sentiva che Apollinare dopotutto rifiutava una reale incarnazione, e sulla base del presupposto che ciò che non era stato portato dal Cristo sulla croce non poteva essere salvato, sembrava che diventando uomo, il Figlio di Dio aveva preso possesso solo di una parziale e mutilata umanità, quella caratterizzata dall'anima e dal corpo (comuni anche alle bestie), lasciando fuori proprio lo spirito (o ragione) che era considerato intrinsecamente affine a Dio e capace di vitale relazione con Lui e nel contempo come la reale radice del peccato.

Al Concilio di Costantinopoli del 381, Apollinare fu esplicitamente condannato. Si ammise che Cristo aveva assunto l'intera indivisa natura dell'uomo, corpo e spirito, con la sola eccezione del peccato, che non appartiene all'originale natura dell'uomo. Infatti le Scritture presentano un Cristo in possesso tanto di un'anima (emozioni), quanto di uno spirito (ragione) entrambi pienamente umani.

La dottrina di Nestorio (428-431 d.C.)

Apollinare, sacrificando all'unità della persona, l'integrità delle nature, almeno della natura umana, anticipò l'eresia Monofisita.
La controparte a tali eresie, venne dalla scuola di Antiochia, nella persona di Nestorio. Costui, monaco e presbitero ad Antiochia, elevato al patriarcato di Costantinopoli da Teodosio II, fu probabile discepolo di Teodoro di Muepsestia (350-428) e implacabile nemico di ariani, macedoniani (dal nome del loro leader Macedonio, costoro erano semi-ariani, detti anche pneumatomachiani, e negavano la divinità dello Spirito Santo), novaziani e quartodecimani.
Nestorio è ricordato dalla tradizione come un uomo onesto, di grande eloquenza, pietà e zelo per l'ortodossia, e nel contempo vanitoso e imprudente.

Il suo cappellano a Costantinopoli, un certo Anastasio, riteneva fossero censurabili quei monaci che usavano l’epiteto Qeotokos (portatrice di Dio, comunemente tradotto con madre di Dio) per la vergine Maria, Nestorio avallò tale critica, definendo antiscritturale l'uso del termine.
Il termine era stato usato tra l'altro da Atanasio, il campione del Concilio di Nicea, Origene, Basile ed altri, e poco aveva a che fare con la crescente venerazione di cui Maria veniva fatta segno. Infatti tutti costoro con tale termine intendevano denotare l'indissolubile unione delle nature divina ed umana nel Cristo, e la reale incarnazione del Logos, che prese l'umana natura dal corpo di Maria, nascendo Uomo-Dio dal suo ventre e soffrendo come Uomo-Dio sulla croce.
Secondo Nestorio, a Maria meglio si addiceva il termine anqropotokos (portatrice dell'uomo, che Nestorio affermava essere usata a Costantinopoli) o Xristotokos (portatrice di Cristo).
Tale precisazione era funzionale alla convinzione che la persona del Salvatore consistesse di due nature indipendenti, nettamente distinte, ciascuna completa in sè stessa, ma unite a formare una personalità tramite un legame etico (sunafeia).
Dio era presente in Gesù allo stesso modo che nei santi e nei profeti, solo in una maniera più completa ed eccellente, non in modo sostanziale, ma tramite una speciale grazia o favore (non kat ousian ma kat eudokian ), in un unione che divenne perfetta al momento del battesimo al Giordano (Nestorio) o all’ascensione (Gregorio di Muepsestia). Nel 1919 fu scoperto in una traduzione siriaca, il "Bazaar di Eracleide" di Nestorio, nel quale egli nega di ammettere solo un'unione morale delle due nature, dichiarando essere l'unione: sintattica e volontaria.

I Nestoriani con l’antiochieno Teodoro di Muepsestia in testa, riconoscevano la presenza del Logos eterno in Cristo (avrebbero potuto certamente sottoscrivere il Credo di Nicea), ma avevano difficoltà a ritenere Gesù qualcosa di diverso da un uomo particolarmente ispirato.
Cristo era un uomo che camminava fianco a fianco con Dio, non c’era una vera incarnazione del Logos quanto piuttosto una Sua "inabitazione", Cristo non era sostanzialmente Dio incarnato.
Gregorio di M. affermava: "non Dio, ma il tempio nel quale Dio abitava nacque da Maria".
Essi cercavano di preservare l’autonomia e l’integrità dell’umanità del Cristo, a fronte degli Apollinaristi che proprio questa negavano. Tali affermazioni neutralizzavano in parte la dottrina neo-testamentaria della redenzione, ma questi teologi più che a questa, nella quale in modo stupefacente pure credevano, guardavano al Cristo come ad una sorta di esempio di fede, non diversamente da Origene.

Cirillo di Alessandria

La Cristologia antiochena, rappresentata da Gregorio di Muepsestia e da Nestorio, non concepiva un Logos divenuto realmente uomo. Pur affermando la dualità delle nature, la loro distinzione, la impossibilità che Dio come tale possa nascere, morire o soffrire, con uguale forza sottolineava la distinzione tra le due nature sino a farle divenire una doppia personalità. La personalità umana del Cristo gradualmente era assorbita dalla natura e dalla personalità del Logos. Pertanto a fronte delle due nature, umana e divina, era reale e preponderante in modo crescente solo quella del Logos. Pertanto l'unione di queste nature appariva meccanica o morale, senza una sostanziale comunicazione di attributi.
Le teorie degli Antiocheni e di Nestorio, altro non sono che una inconfessata dualità di persone in Cristo e un'incapacita a concepire la realtà delle due nature senza concepire contemporaneamente un'indipendenza per ciascuna di esse.
Con Cirillo di Alessandria (376-444), l'odium e la rabies theologorum nella controversia, si affermano in modo inquietante, egli è ricordato come un uomo dotato intellettualmente, acuto, energico, ma estremamente passionale, ambizioso, incline alla polemica, inferiore per pietà a Nestorio e convinto ammiratore di Cristo e Maria.

Proseguì nelle linee essenziali il lavoro di Atanasio e di Gregorio di Nazianzeno secondo i quali la redenzione dell’umanità peccatrice era possibile in quanto l’umanità del Cristo era imbevuta o saturata dalla deità attraverso l’incarnazione.
Secondo Cirillo, il Logos esiste come essere distinto (upostasis) all’interno della Trinità ab eterno, Egli non solo assume la carne, ma diviene carne , e diventa il soggetto dell’uomo-Dio. Tale incarnazione non fa perdere al Logos le caratteristiche che possedeva prima dell’incarnazione. Le due nature nel Cristo, quella umana e quella divina non si confondono in alcun modo, ma la loro unione produce un permanente stato di fatto.
Anche se l’umanità di Cristo resta tale, essa diventa l’umanità di Dio, la sofferenza del Cristo diviene sofferenza di Dio. Cristo è allora "uno" secondo la sostanza e secondo la persona (enoosi kath ousian kai kath upostasin), Egli possiede un’unica natura (enosis fusich).
L’umanità del Cristo è dunque assunta nell’unità dell’essenza divina, ciononostante le nature rimangono distinte , anche se esse si compenetrano in modo misterioso per cui tutte le proprietà dell’una passano all’altra e viceversa diventando patrimonio comune.
Va notato che Cirillo usa i termini upostasis e fusis in modo sinonimo, ciò sembra debba ricondursi alla sua convinzione che la natura umana del Cristo fosse impersonale (anupostatos), solo una sorta di prolungamento della natura divina del Logos.

Cristo sarebbe personale soltanto come Logos, da questo conseguiva che il Logos non avrebbe assunto l’umanità di un particolare uomo, ma quella dell’umanità in generale, gettando una certa ombra di astrattezza sul ritratto storico che i Vangeli danno del Cristo.

Al Concilio di Efeso del 431, il cui risultato fu quello di condannare l’eresia nestoriana, senza che venisse fissata in modo esauriente la vera dottrina, si utilizzò largamente la speculazione teologica di Cirillo, Cristo era definito "consustanziale con noi nella Sua umanità, perchè vi era stata un’unione di due nature, di conseguenza noi confessiamo un Cristo, un Figlio, un Signore", nulla era però detto sul come le due nature coesistevano.

Monofisismo

La teologia antiochena aveva dato alla luce il nestorianesimo, che finiva con il mettere capo ad una doppia personalità nel Cristo. La teologia alessandrina generò l'errore opposto (monofisismo o eutichianismo), che in nome dell'unità del Cristo, facevano assorbire l'umano dal Logos.
Iniziatore del movimento fu l'arcidiacono di Cirillo (morto nel 444), Dioscuro diventato patriarca di Alessandria (444-451). Era costui un uomo ambizioso e passionale, persuaso di dovere esercitare il proprio potere su tutte le chiese dell'est. Il rappresentante teologico del movimento fu Eutiche, un attempato e rispettato presbitero e archimandrita (capo di un monastero con più di 300 monaci) di Costantinopoli, costui era vissuto molti anni in clausura, ed era apparso in pubblico in una sola occasione, durante la processione organizzata da Cirillo in onore della Qeotokos, in occasione del concilio convocato ad Efeso per replicare all'eresia nestoriana.
I monofisiti partivano dalla affermazione di Cirillo, secondo la quale vi era in Cristo una sola natura, quella del Logos di Dio incarnato, ma giungendo alla conclusione che se Cristo avesse posseduto due nature Egli sarebbe stato due persone distinte.

Non tanto questa affermazione, in parte condivisibile, offendeva la Chiesa, quanto il docetismo al quale il movimento sembrava inclinare.
I monofisiti erano disposti ad accettare una natura composta nel Cristo (
mia fusis sunqetos, ð<ðsðpðaðnð ðlðaðnðgð=ðEðLð ðcðlðaðsðsð=ðTð0ð>mia fusis ditthnð<ð/ðsðpðaðnð>), ma non due nature.
Eutiche, l'ispiratore del movimento, poneva enfasi sulla divinità del Cristo, e negava che due nature potessero coesistere in Cristo dopo l'incarnazione, in quanto due nature implicavano la presenza di due persone distinte nel Cristo (non diversamente dai nestoriani che rigettavano la distinzione tra i due termini).
Secondo Eutiche la natura umana impersonale, era assimilata e deificata dal Logos personale, al punto che il corpo del Cristo giungeva a non possedere più nulla in comune con il nostro.
Al 2° Concilio di Efeso del 449 (conosciuto anche come il concilio dei ladri), il monofisismo ricevette sanzione ufficiale, e il duofisismo (rappresentato dalla "Lettera Dogmatica" di papa Leone I), venne bollato come eresia.
Nel Monofisismo erano all’opera due diverse tendenze, quella dei Severiani, dal nome del loro capo Severio patriarca di Antiochia, e quella dei Giulianisti dal nome di Giuliano di Alicarnasso.
I Giulianisti si distinguevano in Teodosiani, e Temistiani (dal leader Temistio diacono di Alessandria) o Agnoeti.
Gli Agnoeti affermavano che Cristo nella propria condizione di umiliazione non era onnisciente, ma condivideva l'ignoranza umana (Luca 2:52; Marco 13:31). Tale concezione conduceva di necessità al duofisismo ed era rigettata dai monofisiti stretti.
I Severiani si dividevano in Ktisisolatri (da ktisis, creazione), e Aktisisolatri.
I Ktisisolatri ritenevano che il corpo di Cristo fosse stato creato corruttibile.
Gli aktisisolatri ritenevano che il corpo di Cristo, anche se era stato creato (corruttibile), in seguito all'unione con il Logos era divenuto incorruttibile.
In generale i Severiani, sottolineavano la corruttibilità del corpo di Cristo prima della risurrezione (da cui il nome di Ftartolatri da fqora, corruzione).
L’espressione del Credo di Calcedonia "in due nature" e l’insistenza sulla indipendente attività delle due nature, erano rifiutate e bollate come Nestoriane. Potevano però concedere che Cristo in quanto carne fosse consustanziale con noi (
kata sarka omoousios hmin). Essi affermavano in definitiva un singolo soggetto a metà tra divino e umano.

Tutti loro negavano che l’umanità del Cristo fosse totalmente assorbita dalla divinità, ma ritenevano che essa fosse stata totalmente trasfigurata dal contatto con la divinità da divenire affine a questa.
A causa di tali presupposti i giulianisti erano sovente accusati di docetismo.

Dopo Calcedonia i monofisiti rigettarono la teoria di Eutiche di un assorbimento della natura umana nella divina, tuttavia tennero ferma la dottrina di una sola natura in Cristo. Essi ritenevano l'umanità del Cristo un elemento accidentale della sostanza divina e immutabile.

Il Concilio di Calcedonia

Eutiche avava affermato che Cristo non possedeva una natura umana simile alla nostra, essendo la natura umana di Cristo completamente assorbita da quella divina. Cristo aveva dunque una sola natura o essenza, quella divina. La posizione di Eutiche venne condannata al Concilio di Calcedonia del 451, che mise capo alla seguente confessione di fede:

Seguendo i santi Padri, noi insegnamo all'unisono che il Figlio [di Dio] e nostro Signore Gesù Cristo deve essere confessato come una e medesima [Persona], che Lui è perfetto in Divinità e perfetto in umanità, vero Dio e vero uomo, con un'anima razionale e un corpo [umano] consistente, consustanziale con il Padre in relazione alla propria divinità, e consustanziale con noi in relazione all'umanità; fatto in ogni cosa come noi, eccettuato il peccato; generato da suo Padre prima dei mondi in relazione alla sua divinità; ma in questi ultimi giorni per noi uomini e per la nostra salvezza venuto [nel mondo] tramite la Vergine Maria, la Madre di Dio in relazione alla sua umanità.
Questo uno e medesimo Gesù Cristo, l'unigenito Figlio [di Dio] deve essere confessato possedente due nature, senza confusione, immutabilmente, indivisibilmente, inseparabilmente [unito], senza che la distinzione di nature sia tolta da tale unione, ma piuttosto la peculiare proprietà di ciascuna natura è preservata ed è unita in una Persona e in una sussistenza, non separata o divisa in due persone, per mettere capo a l'uno e medesimo Figlio unigenito, Dio la Parola, il nostro Signore Gesù Cristo, così come i Profeti dei tempi antichi avevano detto a proposito di lui, e come il Signore Gesù Cristo ha insegnato a noi, e come il Credo dei Padri ci ha trasmessoi.
Queste cose, dunque essendo state espresse da noi con la più grande accuratezza e attenzione, il santo Sinodo Ecumenico comanda che nessuno osi esprimere una fede differente, nè scriva, nè metta assieme, nè escogiti, nè insegni diversamente ad altri. Ma se questi tali osassero o mettere assieme un'altra fede, o esprimere o insegnare o deliberare un Credo differente a questo come se desiderassero essere convertiti alla conoscenza della verità dei Gentili, o dei Giudei o a qualsiasi altra eresia, se essi sono Vescovi o chierici siano deposti, i Vescovi dall'Episcopato, i chierici dal clero; ma se essi sono monaci o laici: siano anatemizzati.

Il simbolo insegna una reale incarnazione del Logos. Tale incarnazione non è nè una conversione della divinità nell'umanità, nè una conversione dell'umanità nella divinità; non un'umanizzazione del divino, nè una deificazione (apothosis) dell'umano; neppure è un'accidentale, transitoria connessione delle due nature, quanto piuttosto un'attuale e stabile unione delle due nature per formare una vita personale.
Tale unione è in maniera essenziale un'auto-umiliazione del Logos divino nella direzione dell'assunzione della natura umana, e nel contempo un'assunzione ed esaltazione della natura umana ad una eterna comunione con la natura divina.
Il Logos assume il corpo, l'anima e lo spirito dell'uomo, e nel contempo si fa carico anche di tutte le infermità che accompagnano la vita dell'uomo sulla terra, con l'eccezione del peccato, che non deve essere inteso come essenziale o necessario alla natura umana.

Nel Credo di Calcedonia l’espressione di Cirillo "una ipostasi, una natura" pur conservando il suo contenuto era trasformata in "una ipostasi, due nature". Questo "aggiustamento" poteva in qualche modo soddisfare i Nestoriani che tenevano per le due nature unite nella singola persona del Cristo.
I termini natura (fusis) e sostanza (ousia), indicano le caratteristiche che costituiscono un essere; il termine persona (upostasis) indica, l'autocoscienza, il soggetto. Non vi è persona senza natura, ma vi può essere natura senza persona (come in un essere irrazionale). La dottrina cristiana distingue nella Trinità tre persone in una divina natura o sostanza posseduta in comune; in relazione alla cristologia è affermato, esservi due nature in una persona (nel senso usuale di persona).
Non può essere affermato: il Logos ha assunto una personalità umana o ha unito se medesimo con un certo individuo umano, poichè tali affermazioni metterebbero capo ad un Dio-Uomo consistente di due persone; il Logos assume la natura umana, che è comune a tutti gli uomini, in tal modo può redimere tutti gli uomini e non solo un particolare uomo.
Il Logos non divenne un individuo (una persona), ma carne, la qual cosa include l'interezza della natura umana (corpo, anima, spirito).
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Il risultato dell'incarnazione è un Dio-uomo. Non un doppio essere, con due persone (Nestorio), nè un essere composto, un essere nè umano nè divino (Apollinare, Monofisiti), ma una persona, che è tanto divina quanto umana.
Il Simbolo di Calcedonia insegna anche l'unità della persona del Cristo, era questo l'elemento di verità presente i Eutiche e nel tardo monofisismo, che però costoro sottolineavano a spese del fattore umano. Vi è solo un Cristo, un solo Redentore: vi è unità nella distinzione delle nature, come pure distinzione nell'unità. L'intera opera del Cristo è attribuita alla sua persona, non ad una natura oppure all'altra.

Nel Simbolo di Calcedonia è anche insegnata la impersonalità della natura umana del Cristo. Il centro della vita personale del Dio-uomo risiede nel Logos, che dall'eternità è la seconda persona della trinità, egli non è passibile di perdere la propria personalità. Lui unì se stesso non con una persona, ma con una natura umana. La natura divina è dunque la radice della personalità del Cristo.
Cristo parla ed opera nella piena coscienza della propria origine: Egli è venuto dal Padre, Egli è stato mandato dal Padre, durante la propria vita terrena ha vissuto in comunione costante con il Padre. La natura umana del Cristo non posiede una personalità diversa da quella del pre-esistente Logos, ed è in esso incorporata e controllata.
Non è possibile concepire una natura umana completa senza una correlativa personalità consistente in intelligenza e libertà di volere, sotto pena di scadere in astrazioni. Ma la natura umana di Gesù non era sola, ma unita inseparabilmente con un'altra natura, quella del pre-esistente Logos, in possesso di una personalità che impregnava di sè la natura umana del Cristo.

Il Simbolo di Calcedonia non pose fine alle dispute cristologiche a proposito della relazione tra le due nature in Cristo. La disputa monofisita si trascinò ancora per oltre un secolo, divenendo spesso un'assurda difesa di formule vuote di spirito di carità.

Monotelismo

Nel Credo di Calcedonia nulla veniva affermato a proposito del ruolo che la "volontà" possedeva nell'economia delle persona del Cristo; intorno al 650 d.C. Sergio patriarca di Costantinopoli affermò che Cristo aveva operato ogni cosa tramite una singola volontà divino-umana (mia qeandrikei energeia). Tale teoria incontrò notevole successo specialmente in Egitto.
Al VI° Concilio Ecumenico di Costantinipoli nel 680 , al Credo di Calcedonia venne aggiunta la definizione di Sergio.
In Cristo vi erano due nature e due energie (attività o volontà), la volontà umana non era opposta alla divina , quanto piuttosto sottomessa alla sua onnipotenza, per cui le volizioni della volontà umana erano in qualche modo assorbite dalla volontà del Logos.

Sembra che i Monoteliti come i Duoteliti (difensori di Calcedonia) partissero dalla dottrina ortodossa delle due nature in un’unica persona, ma mentre i primi sottolineavano l’unità della persona, i secondi tenevano maggiormente per la dualità delle nature.
Se i primi riferivano la volontà del Cristo ad un solo Ego personale, i secondi ritenevano che l’Ego del Cristo fosse espresso in misura uguale dal contributo di ciascuna delle due nature. I Monoteliti temevano che la combinazione di una volontà umana con una divina desse luogo ad una forma di Nestorianismo, per cui preferivano pensare l'umanità del Cristo legata al Logos, come il corpo all’anima.
Secondo Teodoro di Fara, nel quale si manifestano con chiarezza le tendenze docetiche del Monotelismo, gli episodi dei Vangeli nei quali è detto che Cristo provava fame, piangeva, dormiva ect. non possedevano nessuna necessità intrinseca, ma erano appositamente determinati dalla volontà divina per rendere Cristo "umano" a coloro che lo circondavano.
I duoteliti affermavano al contrario che una natura senza volontà era impossibile, se Cristo possedeva una natura umana essa doveva ben possedere una volontà.


Lo schema riassuntivo che diamo di seguito deve essere letto tenendo conto che fino al 4° secolo d.C. upostasis era usato in modo intercambiabile con ousia.
Con Basile il Grande il termine upostasis venne utilizzato per indicare ciascuna delle tre persone della Trinità, mentre ousia indicava la divinità stessa.
Questa differenza corrisponde all'affermazione "tre persone, una sostanza" (anche se etimologicamente il latino "substantia" era l'equivalente di upostasis e non di ousia; tale consuetudine linguistica fu determinata da Tertulliano).
Il Concilio di Calcedonia, distinse una upostasis del Cristo incarnato (la sua persona) e due fusis (due nature, divina e umana). Gli alessandrini avevano precedentemente usato in modo intercambiabile upostasis e fusis, per indicare la persona del Cristo:

  Apollinare 

Per Apollinare un Cristo meno che totalmente divino, non può salvare. La natura divina del Logos prende il posto dello Spirito umano (ragione). In tal modo si verificava una completo assorbimento della natura umana in quella divina. Si forma una sola nuova natura umano-divina, che non è più divina e neppure umana.

Nestorio 

Due nature unite solo moralmente in una persona (anche se Nestorio preferiva parlare di unione sintattica o volontaria). Il Logos prende possesso gradualmente, sostituendola, della natura dell'uomo Gesù.

Cirillo di Alessandria 

Cirillo segue Atanasio nel ritenere più importanti dei termini, il significato che essi mediano, pertanto usa phusis (natura) come equivalente tanto di ousia (sostanza), quanto di upostasi (persona): "una natura divina, il Logos incarnato" oppure "una persona divina, il Logos con due nature".

Eutiche e Monofisiti 

Una persona e una natura quella divina. I termini, natura, sostanza e persona vengono fatti coincidere.

Concilio di Calcedonia 

Due nature, non mescolate, e una persona. 

Monoteliti 

Una natura, una volontà, quella dell’uomo-Dio. 

 

La Riforma Protestante

Lutero

La cristologia di Lutero è profondamente permeata dal presupposto che, per potere adeguatamente parlare di Cristo è necessario partire "dal basso".
La teologia scolastica aveva sempre concepito l'umanità del Cristo come un elemento inessenziale a fronte della sua divinità.
Per Lutero è invece necessario che la fede del credente, si confronti con il concreto Cristo dei Vangeli, cioè con la Parola incarnata.
Cristo è colui che ha assunto la carne per purificarci dai peccati. In tal modo la divinità del Figlio di Dio è venuta in stretto contatto con l'umanità.
Cristo può dare vita, perchè Egli è veramente Dio, così come è anche veramente uomo. Se Egli fosse stato solo un uomo saremmo ancora perduti.
Nella cristologia luterana, risulta impossibile intendere Dio a prescindere dall'incarnazione, come anche risulta impossibile pensare le due nature del Cristo in modo autonomo.
La fede può comprendere Cristo solo come il Cristo della storia, come Colui che è stato crocifisso ed è poi risorto.
Solo tale unione del Cristo, vero Dio, con la vera carne dell'uomo, permette agli uomini che si piegano all'annuncio della salvezza, di ricevere il perdono dei peccati.
In breve, Lutero rifiuta la teologia di coloro che intendevano l'incarnazione del Cristo, come un'assunzione esteriore di abiti mortali, da parte dell'immutabile Dio.

Lutero partendo dalla dottrina tradizionale della "communicatio idiomaticum", ed estremizzandola (specie dopo la controversia con Zwingli sull'eucarestia), afferma che caratteristiche della natura divina vengano trasmesse a quella umana e viceversa; ad esempio caratteristiche divine come quella dell'ubiquità verrebbero trasmesse alla natura umana, anche se è probabile che nelle intenzioni del riformatore, in quest'ultimo caso vi fosse il desiderio di descrivere il Cristo glorificato; Lutero afferma nella "Grande Confessione dell'Eucarestia del 1528: "Poichè la divinità e l'umanità formano in Cristo una sola persona, la Scrittura attribuisce alla divinità, sulla base di tale unità personale, quello che concerne l'umanità e viceversa".
In breve tra natura umana e divina avviene una sorta di osmosi, le qualità dell'una trapassano e si fondono con le qualità dell'altra.

Il modo come la natura divina e quella umana si fondono in Cristo, non possiede per Lutero alcun rilievo teologico, ciò che importa è conoscere in che modo Cristo possa essere  Signore e Salvatore, per il peccatore.
Melantone affermerà nei Loci Communes (1521): "Questo è conoscere Cristo, conoscere i suoi benefici, non la sua natura, nè indagare la modalità della sua incarnazione".
In seguito la scolastica luterana, sviluppò la dottrina della communicatio affermando che Cristo non solo dopo la propria ascensione (Lutero), ma durante tutta la propria attività terrena aveva posseduto, ma espresso solo saltuariamente, gli attributi della divinità.
E' questa la dottrina della "kenosi": Cristo aveva deciso incarnandosi, non di privarsi, ma soltanto di nascondere gli attributi della propria divinità.
Tale possesso di attributi divini, però appariva ridurre a poca cosa la portata della piena umanità del Cristo, ad esempio per potere morire sulla croce Egli avrebbe dovuto decidere di essere solo uomo, sganciandosi dalla natura divina, essendo in quanto Dio, impossibilitato a morire.

Della dottrina della kenosi vi erano originariamente due varianti: secondo il luterano Brenz (a capo della scuola di Swaben), l'unità della natura umana e di quella divina è tale che sin dalla nascita, la natura umana del Cristo condivide il potere e la gloria della natura divina, solo che tali prerogative sono esercitate in modo nascosto (krupsis) o espresse saltuariamente.
Cristo non rinuncia al proprio potere di governare i cieli e la terra, neppure durante la propria deposizione nel sepolcro. Cristo è realmente ubiquo.

Secondo il luterano-filippista Martin Chemnitz (rappresentante della scuola della bassa Sassonia e coautore della Formula di Concordia), Cristo possiede il potere di essere simultaneamente presente in più posti (multivoliproesentia), tale potere risiede nell'umanità del Cristo in virtù del possesso della natura divina. Cristo durante il proprio ministero terreno, avrebbe deciso volontariamente di sospendere qualsiasi manifestazione dei propri attributi divini, pertanto non vi era alcuna attività nascosta come per il Brenz.

La Formula di Concordia sposò la linea teologica di Chemnitz, affermando inoltre esservi una reale comunicazione di qualità da una natura all'altra, senza che avvengano addizioni o trasformazioni della natura divina a causa dell'unione con la natura umana: "Dopo essere salito non soltanto al cielo, come qualsiasi altro santo, ma secondo la testimonianza apostolica, più in alto di tutti i cieli, egli [Cristo] completa effettivamente ogni cosa ed è onnipresente non solo in quanto Dio, ma anche in quanto uomo."
Lutero aveva legato strettamente natura umana e divina in Cristo, tanto da non poter concepire soltanto una presenza spirituale del Cristo nell'eucarestia. Dove era presente il Cristo-Dio, quindi ovunque, lì vi sarebbe stato anche il suo corpo! Nell'eucarestia era pertanto presente non solo il Cristo secondo lo spirito, ma anche il Cristo secondo la carne.
E' questa la dottrina dell'ubiquità, che deve essere intesa come la conclusione logica, dell'originale interpretazione della communicatio idiomaticum, da cui prende la mosse Lutero.

Calvino

I luterani tendevano a rendere alquanto incerti i contorni della natura umana del Cristo (non ci si sottrae all'impressione che Lutero tenda a divinizzare la carne del Cristo), da qui l'accusa di monofisismo o docetismo mossa loro dai riformati (questi ultimi erano invece accusati dai luterani di essere nestoriani ed ebioniti). Tutto ciò è stato compreso da K. Barth (Dogmatica Ecclesiale I, 2), come un riferimento ad una presunta duplice tradizione originaria concernente la persona del Cristo, quella espressa dai sinottici (seguita dai monofisisti e dai luterani) e quella presentata dal vangelo di Giovanni (seguita dai nestoriani e dai riformati).

Calvino riteneva che: "L'affermazione che la Parola è stata fatta carne (Giov. 1:14) non deve essere intesa nel senso che essa sia stata convertita in carne o confusamente mescolata alla carne, ma che ha assunto nel corpo della vergine un corpo umano, facendosene un tempio in cui abitare. E colui che era Figlio di Dio è stato fatto Figlio dell'uomo non con una confusione delle sostanze ma nell'unità della persona; vale a dire ha congiunto ed unito la propria divinità con l'umanità che ha assunto, di sorta che ciascuna delle due nature ha conservato le sue caratteristiche, e tuttavia Gesù Cristo non ha due persone distinte ma una sola. E' possibile trovare nelle cose umane una similitudine a questo mistero? Il paragone con l'uomo appare adatto: lo vediamo infatti composto di due nature, ciascuna delle quali non è però confusa l'altra al punto da perdere le proprie caratteristiche. L'anima non è il corpo, nè il corpo è l'anima: si attribuisce all'anima quello che non può riferirsi al corpo; e al corpo quello che non può riferirsi all'anima; e all'uomo completo quello che non può competere nè all'una nè all'altra parte. Inoltre i tratti particolari dell'anima sono trasferiti al corpo e dal corpo all'anima reciprocamente. Tuttavia la persona composta di queste due sostanze è un solo uomo e non parecchi." (Istit. II, XIV, 1)
Calvino ritiene di dover prendere le mosse da una chiara distinzione tra natura umana e divina nel Cristo, contrariamente a quanto facevano i luterani, che tale distinzione tendevano ad assorbire nella divinità.
La communicatio idiomaticum tra le nature, deve essere intesa come comunicazione di qualità sui generis, finalizzata unicamente allo scopo di far svolgere a Cristo il proprio compito di Redentore. Cristo teneva celato quanto non era necessario alla sua funzione di mediatore, e non comunicava tali poteri alla propria natura umana (in linea con il pensiero di Ireneo).
Il termine "kenosis", era inteso come sinonimo del termine "incarnazione", e pur non indicando una privazione della potenza e sapienza divine, da parte del Logos, testimoniava del fatto che questo rimaneva possessore esclusivo di tali caratteristiche.
Pertanto la natura divina del Cristo conservava le proprie prerogative come ad esempio l'ubiquità, ma Calvino al contrario di Lutero, negava che la natura umana vi partecipasse.

Il Logos, il Figlio di Dio pur essendo interamente in Cristo (totus in carne), doveva nel contempo essere inteso completamente fuori di esso (totus extra carnem) e in quest'ultimo stato governare l'universo; è questa la dottrina dell'extra calvinisticum, che Calvino presenta nel modo seguente: "Quando è detto (1Cor. 2:8) 'essi crocefissero il Signore della gloria', questo non significa che in qualche modo egli abbia sofferto nella sua divinità, ma vuol dire che Gesù Cristo, soffrendo quella morte ignominiosa nella sua carne, era lui stesso il Signore della gloria. Per la stessa ragione si può dire che il figlio dell'Uomo era in cielo e in terra in quanto Gesù Cristo, secondo la carne, ha parlato quaggiù mediante la sua vita mortale e tuttavia non cessava di abitare in cielo in quanto Dio. Quando nello stesso testo è detto 'è sceso dal cielo', questo non significa che la sua divinità abbia lasciato il cielo per rinchiudersi nella carne come in un carcere, ma significa che colui che riempie tutto ha nondimeno abitato corporalmente, in modo inesprimibile, nella sua umanità." (Istit. IV, XVII, 30), e ancora: "Ma sebbene egli abbia unito la sua essenza infinita con la nostra natura, questo è avvenuto senza limitazione e senza prigione. E' sceso miracolasamente dal cielo pur senza lasciare il cielo; è stato portato miracolosamente nel ventre della Vergine, è vissuto nel mondo, è stato crocifisso e tuttavia la sua divinità riempiva contemporaneamente il mondo, come prima." (Istit: II, XIII, 4).
Le due nature distinte, mantenevano ciascuna le proprie caratteristiche.
Venivano in tal modo a crearsi due centri di attività della coscienza per il Figlio di Dio.

L'accusa rivolta ai calvinisti di distruggere l'unità della persona del Cristo, risultava perciò inevitabile.

Bibliografia

Per quanto concerne il fronte ortodosso della polemica trinitaria, possono essere consultati gli scritti dei padri del 4° sec. specialmente le opere di: Atanasio (Orationes c. Arianos; De decretis Nicaenae Synodi; De sententia Dionysii; Apologia c. Arianos; Apologia de fuga sua; Historia Arianorum, etc.), Basile (Adv. Eunomium), Gregorio Nazianzeno (Orationes theologicae), Gregorio di Nissa (Contra Eunom.), Epifanio (Ancoratus), Ilario (De Trinitate), Ambrogio (De Fide), Agostino (De Trinitate, and Contra Maximinimum Arianum), Rufino, e gli storici della chiesa greca.
Per il fronte ereticale: I frammenti degli scritti di Ario (Thalia, e le due Epistolae a Eusebio di Nicomedia e Alessandro di Alessandria), preservate in citazioni negli scritti di Atanaso Epifanio, Socrate e Teodoreto.