Francesco Turretini e la Dottrina della Predestinazione
I Turretini (o Turrettini, come a Ginevra
si scriveva e pronunciava), erano di origini italiane, più precisamente essi
appartenevano alla nobiltà della città di Lucca.
Francesco Turretini nacque il 17 ottobre del 1623. Egli era figlio
di Benedetto Turretini, il cui padre era stato Regolo Turretini, capo magistrato
(gonfaloniere) di Lucca e primo "protestante" della famiglia.
Quest'ultmo a causa della sua fede, rinunciò alle proprie ricchezze e posizione
sociale, e dopo avere abbandonato la sua patria e girovagato in esilio, finalmente
si stabilì a Ginevra, e ne ottenne la cittadinanza nel 1627. Nel 1628 ottenne
l'incarico di anziano nel principale organo di governo della città; il Piccolo
Consiglio dei 60 anziani. Il più vecchio dei suoi figli fu Benedetto Turretini,
che nacque a Zurigo il 9 novembre del 1588.
Benedetto fu molto apprezzato come pastore e professore di teologia. Egli si
preoccupò di mantenere la teologia ginevrina nell'ambito della più rigida ortodossia
calvinista. Nel 1618 tramite lettera, fece sapere ai teologi riformati olandesi
riuniti a Dordrecht, che la strada da percorrere implicava che non si facessero
innovazioni teologiche (gli inviati di Ginevra al Sinodo furono Diodati e Tronchin).
Nel 1620 prese parte al Sinodo di Arles, e in linea con le decisioni prese a
Dordrecht, sostenne la causa di Franz Gomar (costui era stato il primo avversario
di Arminio, ed aveva spinto la dottrina della doppia predestinazione sino al
sovralapsismo, ossia alla convinzione che poneva la predestinazione prima della
caduta di Adamo). Negli ultimi anni di vita Benedetto assunse un atteggiamento
di tolleranza nei confronti degli arminiani, giungendo a consigliare ai pastori
olandesi "indulgenza nei confronti di coloro che avevano idee diverse".
Alla sua morte, Francesco Turretini, terzo di 6 figli, aveva 8 anni.
Francesco aveva rivelato una notevole agilità mentale, tanto che suo padre sul
letto di morte affermò: "Hic sigillo Dei obsignatus est" (Questo ragazzo
è segnato con il sigillo di Dio). Ricevette l'istruzione filosofica e teologica
sotto la direzione di Giovanni Diodati (che occupava la cattedra che era già
stata di Calvino e Beza), Federico Spanheim, Alessandro Morus, Teodoro Tronchin
(membro del Sinodo di Dordt). Completò gli studi a Ginevra nel 1644. Fu in seguito
a Saumur, Parigi dove ebbe per maestro lo storico della chiesa, David Blondel.
In quel periodo, Turretini venne coinvolto in una disputa con il teologo riformato
Moise Amyraut (1596-1664).
Amyraut nel suo scritto "Breve Trattato della predestinazione e delle sue
conseguenze", contestava la dottrina calvinista dell'espiazione del Cristo
avvenuta per i soli eletti a salvezza, rimpiazzandola con una concezione definita:
dell'universalismo ipotetico. Egli affermava che intento principale e universale
di Dio è quello di salvare tutti gli uomini; perciò egli li chiama tutti alla
salvezza; ma la creatura non può in realtà ubbidire a questa universale chiamata,
a causa della corruzione del peccato, insuperabile ostacolo alla nascita della
fede. Infatti la fede, condizione fondamentale della salvezza, è opera sovrana
di Dio, che non la concede a tutti gli uomini, ma solo agli eletti, cioè a quelli
che ha predestinato alla salvezza, sulla base di uno speciale e misterioso decreto.
Così pur ponendo che Gesù era morto per tutti gli uomini indistintamente, Amyraut
ricade nel perticolarismo calvinista. L'universalismo che egli insegna è solo
teorico, essendo il decreto divino quello che rende possibile la salvezza o
la dannazione. Ai teologi francesi appariva importante quella volontà generale
di Dio volta a salvare tutti gli uomini, mentre il decreto di dannazione appariva
come una deviazione "umana" rispetto alla volontà originaria di Dio.
Turrettini confutò tale contraddittoria dottrina nelle sue "Istituzioni".
Francesco compì anche studi di fisica e astronomia sotto la direzione di Gassendi.
Turretini nel 1648, divenne pastore della chiesa di Ginevra, con l'incarico
di curare la comunità di rifugiati di lingua italiana. Nel 1650, rifiutò l'invito
ad occupare la cattedra di filosofia all'Accademia di Ginevra. L'anno precedente
aveva rifiutato una chiamata proveniente dalla chiesa di Leida, ma nel 1652
l'improvvisa morte del pastore di quella città, lo spinse ad accettare il compito.
Tornato a Ginevra nel 1653, fu nominato successore di Teodoro Tronchin alla
cattedra di teologia, e in seguito rettore. Mantenne tale incarico, insieme
a quello di cura della congregazione di lingua italiana, sino alla propria morte.
Turretini fu colui che la piccola repubblica di Ginevra, inviò in Olanda a vhiedere
sollecitare gli Stati Generali affinchè inviassero aiuti per fortificare le
mura della città.
Nel 1657, ottiene che la Compagnia dei Pastori faccia firmare ai suoi membri
un testo con il quale essi si impegnano a nn parlare: "del'universalità
della grazia, della non imputabilità del peccato di Adamo, della conoscenza
di Dio attraverso le opere della creazione, utile ai fini della salvezza anche
senza una distinta conoscenza di Gesù Cristo, del decreto condizionale e revocabile,
della prima e della seconda misericordia, della predestinazione universale,
della redenzione generale, della distinzione tra impotenza naturale e morale,
della credenza che Gesù sia morto egualmente per tutti, della fede suddistinta
e della vocazione reale, quella cioè che deriva dalla contemplazione delle opere
della natura".
Nel 1661 Francesco, come già suo padre Benedetto, venne inviato in Olanda a
cercare sovvenzioni per la fortificazione di Ginevra. Invitato a stabilirsi
in Olanda, preferì tornare a Ginevra per reprimervi la protesta di Louis Tronchin
(figlio di Teodoro Tronchin), che desiderava reagire crescente intransigenza
della Compagnia dei Pastori.
Nel 1664 pubblica lo scritto "I papisti e le rivendicazioni dei riformati";
risalgono al 1666 i suoi studi sulla "Giustificazione di Cristo".
Nel 1674 pubblica i suoi sermoni.
L'opera principale di F. Turretini, l'Institutio Theologiae Elencticae risale
al 1674, ma il primo volume dell'opera, fu dato alle stampe soltanto nel 1679,
solo dietro insistenza dei molti suoi estimatori (il secondo volume fu stampato
nel 1682, il terzo nel 1685). In omaggio a Calvino, egli intitola il proprio
capolavoro: "Institutio", termine che significa "fondazione"
o "istruzione di base".
Tale opera appartiene alla scolastica calvinista, e nella versione latina dell'edizione
del 1847, conta circa 1800 pagine. Il metodo utilizzato da Turretini per la
stesura dell'opera è semplice e logico. Si comincia con lo "Status Quaestionis":
con cura il soggetto principale della questione viene separato da tutto quello
che non ha a che fare con essa. Seguono le argomentazioni a sostegno della tesi
principale in ordine numerico e successione logica. Agli argomenti seguono le
"Fontes Solutionum"o risposte alle obiezioni, che occupano una parte
cospicua di ogni pagina dell'opera.
Nel 1675, Turrettini è autore insieme allo zurighese Heinrich Heidegger, Gernler,
Hummel e Ott, della Formula Consensus, una confessione di fede fortemente calvinista,
che doveva servire a fronteggiare le minacce della teologia francese particolarmente
incline all'amyraldismo.
Nel 1687 Turretini pubblica uno scritto sulla necessità della separazione dalla
chiesa romana.
Alla revoca dell'Editto di Nantes nel 1685, seguono distruzioni dei locali di
culto, persecuzioni ed emigrazioni di protestanti dalla Francia. Questi avvenimenti
funestarono gli ultimi anni di vita di Turretini.
Morì il 28 settembre 1687 alla "maison Turretini" di Ginevra, non
senza aver raccomandato all'unico figlio sopravvissuto dei quattro natigli,
la cura della chiesa, l'amore per la verità, l'umiltà, e la carità.
Il figlio. Giovanni Alfonso, però non seguì le orme del padre, diventò infatti
molto noto come il capo e il teologo del liberalismo teologico di Ginevra.
Sulla Predestinazione (dall'Istitutio di F. Turrettini)
Deve la predestinazione essere pubblicamente insegnata e predicata? Noi affermiamo di si!
Alcuni fratelli francesi, al tempo di Agostino
posero tale domanda. Questo poichè in un suo scritto contro i pelagiani, aveva
inserito e sottolineato molte cose concernente la predestinazione, al fine di
difendere la verità contro le loro empie dottrine; molti furono turbati da tale
dottrina (come appare dalle due lettere di Prospero, un discepolo di Agostino
e di Ilario il presbitero (cfr. "Lettere 225 e 226 ad Agostino" [FC
32:119-29 e 129-391]).
La ragione di tale sconcerto, non era che si giudicasse tale dottrina falsa,
ma che veniva insegnato che la sua predicazione era pericolosa e difficile,
pertanto meglio sarebbe stato sopprimerla, piuttosto che portarla all'attenzione
dei credenti.
Vi sono alcuni della stessa opinione al giorno d'oggi. Utilizzando gli stessi
argomenti usati contro tale dottrina in quasi ogni età, pensano che sia meglio
per la pace della chiesa e la tranquillità delle coscienze, lasciar perdere
tale questione (secondo loro, questa dottrina suggerirebbe dubbi e genererebbe
scrupoli, indebolendo la fede dei deboli e portando gli uomini alla disperazione
o alla sicurezza carnale).
Questa opinione è più onesta che vera, e non può essere convenientemente ricevuta,
da quelli che hanno conosciuto i ricchissimi frutti della consolazione e della
santificazione, donati ai credenti tramite la corretta comprensione di questa
dottrina. Così noi pensiamo che questa dottrina dovrebbe essere: nè soppressa
da una pretestuosa modestia, nè curiosamente posta in un angolo da una eccessiva
presunzione.
Piuttosto dovrebbe essere insegnata saggiamente e prudentemente a partire dalla
Parola di Dio, in modo da evitare due pericolosi ostacoli: da una parte, quello
della "inclinazione all'ignoranza" che non desidera vedere nulla e
acceca se stessa principalmente nelle cose rivelate; dall'altra parte, quello
della "curiosità senza limiti" che si ingegna a vedere e comprendere
qualsiasi cosa, anche le cose nascoste.
Tali ostacoli sono posti sul sentiero di chi, (peccando per difetto) pensa che
noi dovremmo astenerci dalle affermazioni di questa dottrina, oppure di chi
(peccando per eccesso) desidera fare completa luce (exonucizein) su
ogni affermazione di tale mistero, e ritiene che niente dovrebbe essere lasciato
oscuro (anexereunifton).
Noi al contrario, teniamo fermo (con gli ortodossi) che la predestinazione può
essere insegnata con profitto, purchè questo sia fatto saggiamente a partire
dalla parola di Dio. Le ragioni che adduciamo sono:
(1) Cristo e gli apostoli frequentemente insegnano la predestinazione (come appare nel Vangelo: Matteo 11:20, 25; 13:11; 25:34; Luca 10:20; 12:32; Giovanni 8:47; 15:16 e in altri osti; e nelle epistole di Paolo l'intero Rom. 9 e Rom. 8:29, 30; Ef. 1:4, 5; 2 Tim. 1:9; 1 Tess. 5:9; 2 Tess. 2:13). Nè altrimenti fa Pietro, (o Giacomo o Giovanni) il quale parla ripetutamente di questo mistero in qualsiasi occasione gli è offerta. Ora se era appropriato per ciascuno di loro insegnare questo, perchè non dovrebbe essere appropriato per noi comprenderlo? Perchè dovrebbe Dio insegnare ciò che sarebbe stato meglio (arrifton) tacere (ameinon)? Perchè Dio desiderava proclamare quelle cose che sarebbe stato meglio non conoscere? Desideriamo noi essere più prudenti di Dio o prescrivergli delle regole?
(2) Essa è una delle dottrine primarie del
Vangelo, un fondamento della nostra fede. Ciò non può essere ignorato senza
recare grave ingiuria, alla chiesa e ai credenti.
Perchè essa è la sorgente della nostra gratitudine a Dio, la radice dell'umiltà,
il fondamento e la più ferma ancora di confidanza in tutte le tentazioni, il
fulcro della più dolce consolazione e del più potente incitamento (incitamentum)
alla pietà e alla santità.
(3) La importunità degli avversari (che hanno
corrotto questa punto primario della fede, tramite errori mortali, ed infami
calunnie che essi sono avvezzi ad ammucchiare sulla nostra dottrina) ci impone
la necessità di trattare l'argomento in modo che la verità possa essere chiaramente
esibita e liberata dalle accuse falsissime ed inique degli uomini inclini al
male.
Con tale dottrina, noi non introduciamo una fatale e stoica "necessità";
come se estinguessimo tutta la religiosità nella mente degli uomini, per calmarli
sul letto della sicurezza e della profanità o buttarli nell'abisso della disperazione;
come se noi facessimo Dio crudele, ipocrita e autore del peccato, rabbrividisco
al solo riferire tali calunnie!
Tutte queste accuse, sono interamente false,
e dovrebbero, senza mezzi termini essere rifiutate da una savia e salutare dottrina
derivata dalla Parola di Dio.
(1) Uomini malvagi spesso abusano di questa dottrina (impropriamente compresa),
tuttavia la sua legittimità per le persone pie, non deve essere negata (a meno
che non si desideri avere maggiori riguardi per i malvagi piuttosto che per
i credenti).
(2) Se, sulla base degli abusi di alcuni individui, noi ci astenessimo dalle
affermazioni di questa dottrina, noi dovremmo allo stesso modo astenerci dalla
maggior parte dei misteri della religione cristiana, di cui i malvagi abusano
o per i quali ci deridono e ridicolizzano (come ad esempio il mistero della
Trinità, dell'incarnazione, della risurrezione, e simili).
(3) Le calunnie scagliate contro le dottrine di Paolo, dai falsi apostoli, non
lo costringeva a sopprimerla; al contrario, lui dappertutto discute di predestinazione,
nel suo ispirato modo, in maniera da chiudere la bocca agli avversari. Perchè
noi dovremmo astenerci dalla sua presentazione? Permetteteci di seguire le orme
di Paolo e con lui di parlare o tacere.
Se alcuni abusano di questa dottrina per
darsi alla licenziosità o votarsi alla disperazione, questo succede non a causa
della dottrina stessa, ma accidentalmente, a causa dei vizi degli uomini che
malvagiamente si avvinghiano ad essi, a loro stessa perdizione.
In realtà non c'è nessun'altra dottrina da cui possa essere ricavata più potente
incitamento alla pietà, e da cui sgorga ricchissima confidanza e consolazione
(come sarà notato al momento opportuno).
Il mistero della predestinazione, è troppo
sublime per noi, per essere compreso nel suo "perchè" (dioti), per noi sarebbe
troppo arduo trovare o assegnare le ragioni o le cause di essa.
Ciò non toglie che essa sia insegnata di fatto (oti) nelle Scritture e sia da noi fermamente ritenuta.
Pertanto vi è da fare una distinzione: a) ciò che Dio ha rivelato nelle Sacre
Scritture; b) ciò che Dio ha nascosto.
Non possiamo prescindere da tale distinguo. "Le cose occulte" afferma
la Scrittura, "appartengono a Dio: ma le cose rivelate appartengono a noi
e ai nostri figli" (Deut. 29:29). Ignorare le cose rivelate costituisce
ingratitudine, ma indagare le cose occulte significa temerità. "Noi non
dobbiamo dunque negare ciò che è chiaro perchè noi non possiamo comprendere
ciò che è nascosto," così Agostino si esprime su questo punto (Sul
Dono della Perseveranza 37 [NPNF1, 5:540; PL 45.10161).
I Padri precedenti Agostino, parlarono molto
parsimoniosamente intorno a tale mistero, non perchè essi giudicavano fosse
meglio ignorarlo, ma perchè non si presentava occasione di discuterne più largamente
(l'eresia pelagiana non era ancora venuta alla ribalta).
E' però senz'altro vero, che talvolta si esprimevano senza sufficiente cautela.
Tuttavia Agostino (Sul Dono della Perseveranza) argomenta che non sorvolavano
questa dottrina (perchè chi potrebbe ignorare a proposito di ciò che è tanto
chiaramente espresso nelle Sacre Scritture?); Agostino in tal senso adduce le
testimonianze di Ambrogio, Cipriano e Gregorio Nazianzeno.
Anche se riteniamo che la predestinazione
dovrebbe essere insegnata, ciò non implica che l'umana curiosità debba essere
incoraggiata. Riteniamo, tanto che vi sia necessità di insegnare, quanto di
usare una grande sobrietà e prudenza; entrambi questi elementi debbono rimanere
nei confini assegnati dalla Scrittura, non cercando di essere saggi oltre ciò
che è scritto (par'o gegraptai). Dobbiamo avere, nella presentazione delle sue proposizioni,
riguardo per le persone, i luoghi e i tempi. Essa non deve essere diffusa immediatemente
e senza cautele, ma gradualmente e lentamente. Nè deve essere presentata egualmente
in tutte le sue parti, ma alcune debbono essere più frequentemente esposte,
per renderle più utili e meglio adatte alla consolazione dei pii (come la dottrina
dell'elezione), mentre altre debbono essere esposte meno frequentemente (come
la riprovazione degli iniqui). Neppure deve essere presentata allo stesso modo
a coloro che frequentano la congregazione oppure ai novizi (tois
mustais).
La predestinazione deve essere considerata non un "a-priori", quanto
piuttosto un "a-posteriori". Non dobbiamo scendere dalle cause agli
effetti, ma ascendere dagli effetti alle cause.
Neppure dobbiamo ritenere di potere con curiosità, scrutare il "rotolo
della vita" per vedere se i nostri nomi vi sono scritti (cosa addirittura
proibita), ma dovremmo diligentemente consultare il "libro della coscienza",
cosa non solo permessa, ma anche comandata, poichè noi dobbiamo conoscere se
il sigillo di Dio è stampato sui nostri cuori e se i frutti dell'elezione (ad
esempio: fede e pentimento) possono essere trovati in noi (che è il miglior
modo di procedere nella salvifica conoscenza di questa dottrina).
In una parola, dovremo bandire tutte le questioni inopportune e infruttuose,
che Paolo chiama "folli e stolte" (apaideutous zetesis kai aperantous, 2 Tim. 2:23), le quali solitamente generano divisioni
e contese.
Il nostro unico obiettivo dovrebbe essere quello di incrementare la nostra fede,
non nutrire inutili curiosità, lavorare per l'edificazione, non affaticarci
per la nostra gloria.
In che senso sono usate le parole prognosis, ekloges e proqesis per descrivere il mistero della 'predestinazione'?
Poichè le Sacre Scritture (che rettamente intese, gettano grande luce sulla conoscenza di tale soggetto) usano varie parole per spiegare tale mistero, dobbiamo premettere alcune cose a tal proposito.
In primo luogo per descrivere questa dottrina è usata la parola "predestinazione", ciò deve essere tenuto ben presente. Perchè sebbene il soatantivo "proorismos" (predestinazione) non compare nelle Scritture, il relativo verbo appare spesso (Atti 4:28; Rom. 8:29, 30 Efesini 1:5). Comunque predestinare (proorizein ) significa "determinare qualcosa a proposito di cose, prima che esse accadano o dirigere l'uomo ad un certo fine".
Il termine, secondo gli studiosi, possiede
tre accezioni:
(1) In generale, identifica ogni decreto di Dio a proposito delle creature,
e più specificamente, il decreto di Dio per le creature intelligenti, a proposito
del loro fine ultimo. In tal senso è utilizzato dai Padri per connotare la stessa
Provvidenza.
(2) Più specificamente "predestinazione", indica il consiglio di Dio
a proposito degli uomini caduti, affinchè siano salvati per grazia o dannati
per giustizia (cosa che è rispettivamente chiamata "elezione" e "riprovazione").
(3) Ancora più specificamente indica il decreto stesso di elezione, cioè la
"predestinazione dei santi".
In accordo con il secondo significato vi possono essere due ulteriori sensi
(scesin): a) in riferimento alla "destinazione al fine",
b) particolarmente per la "destinazione ai mezzi" (nel quale senso
esso è usato da Paolo quando afferma che Dio predestina quelli che Lui preconosce,
affinchè siano "conformati all'immagine di suo Figlio" (Rom. 8:29,
30).
Risulta chiaro che "predestinazione" è distinto dal termine "preconoscenza",
e si riferisce particolarmente al fine. Ad esempio dove è detto che Dio ci ha
scelto in Cristo, "avendoci predestinati" (proorisas hmas) ad essere adottati (Efes. 1:5), connotando così il fine
dei mezzi disposti all'ottenimento della salvezza, frutto dell'elezione.
E' oggetto di controversia se la "predestinazione"
debba essere riferita solo all'elezione o se essa riguarda anche la "riprovazione".
Questo dibattito fu originariamente sollevato dalla meditazione di Gottschalk
nel IX° secolo, in quanto Giovanni Scoto affermava che con il termine "predestinazione"
dovesse essere indicata la sola elezione (De Divina Praedestinatione liber [PL
122.355,4401).
Al contrario, Gottschalk, i Lionesi ed il vescovo Remigio, la estendevano anche
alla "riprovazione". La stessa questione ora si pone tra noi e i papisti.
I papisti (ai quali risulta odioso il termine "riprovazione") contendono
affermando che essa deve essere usata solo nel primo senso.
Essi sono abituati a chiamare i "reprobi", non con il termine "predestinati",
ma con il termine "preconosciuti"; e così non subordinano, ma oppongono
la riprovazione alla predestinazione (così fanno, Bellarmino, Gregorio di Valentia
and Pighius, De libero hominis arbitrio 8.2 [1642], p. 137).
Con loro concordano anche alcuni degli ortodossi, sebbene non con gli stessi
obiettivi in vista.
Ma noi sebbene disposti a confessare che il termine predestinazione è secondo
l'uso scritturale spesso ristretto all'elezione; pure per la significazione
propria del termine, ma anche dall'uso scritturale e per l'uso ricevuto, pensiamo
sia giusto estenderlo alla riprovazione così da abbracciare entrambe le parti
del consiglio divino (elezione e riprovazione).Le ragioni a sostegno di tale
posizione sono:
(1) la Scrittura estende il termine proorizein agli atti malvagi che causarono la crocifissione di Cristo: "il
figlio dell'uomo se ne va secondo che è stabilito" (kata to orismenon) (Luca 22:22; Atti 4:28). Erode e Ponzio Pilato non fecero nulla,
ma solo quanto la mano di Dio aveva stabilito (proorise) venisse compiuto.
Non è valida l'obiezione che potrebbe essere fatta, che il termine non tratta
della loro riprovazione, ma del piano della crocifissione affinchè andasse ad
un buon fine. Queste argomentazioni non debbono essere opposte, ma ricomposte.
La crocifissione di Cristo (che è il nostro mezzo di salvezza) era per i crocifissori
lo strumento di dannazione (che dipende dal più che giusto decreto di Dio).
2) La Scrittura usa frasi equivalenti quando è detto che certe persone sono
destinate all'ira (1 Tess. 5:9; 1 Pietro 2:8), destinate alla distruzione (Rom.
9:22), ordinate alla condanna (Giuda 4), create per il disonore (Rom. 9:21)
e per il giorno del male (Proverbi 16:4).
Se è la riprovazione che è espressa in questi brani, perchè non può la riprovazione
essere espressa con il termine "predestinazione?
3) La definizione di predestinazione (cioè, l'ordinazione di una cosa al suo
fine tramite la scelta di mezzi, prima che essa accada) è non meno appropriata
alla riprovazione che all'elezione.
4) I Padri così si esprimono frequentemente: "Noi confessiamo l'elezione
a vita e la predestinazione dei malvagi alla morte" (Concilio di Valence,
Mansi, 15:4). "Lui compie ciò che desidera, propriamente usando anche le
cose malvage, avendo di mira la dannazione di coloro che Lui ha giustamente
predestinato alla punizione" (Agostino, Enchiridion 26 [100] [FC 3:454;
PL 40.2791; cf. anche il suo "Trattato sui Meriti e il Perdono dei Peccati,'
2.26 [171 [NPNFI, 5:551; CG 21.24 [FC 24:387-941; Fulgenzio, Ad Monimum I [PL
65.153-781). "La predestinazione è duplice; o degli eletti al riposo o
dei reprobi alla morte" (Isidoro di Siviglia, Sententiarum Libri tres 2.6
[PL 83.6061).
Sebbene in verità il termine "predestinazione" è talvolta preso in senso stretto nelle Sacre Scritture, ad indicare la predestinazione dei santi o l'elezione alla vita, ciò non toglie che esso possa essere usato più comprensivamente. Anche se gli oggetti degli atti della riprovazione e dell'elezione sono opposti, non lo sono gli atti stessi, per tale motivo (dal punto di vista di Dio), non sono tali atti reciprocamente opposti. Essi procedono dalla stessa fonte la quale opera liberissimamente.
La seconda parola che ricorre frequentemente
è prognosis. Paolo la usa in più di un'occasione: "colui che
è stato preconosciuto" (ous proegno, Rom. 8:29); "Lui non ha rigettato il suo popolo che ha
preconosciuto (proegna, Rom. 11:2); "essi
sono chiamati eletti secondo la preconoscenza" (kata
prognosin, 1 Pietro 1:2).
Poichè gli antichi e i moderni pelagiani abusano con malizia di questa parola,
onde supportare la propria concezione di una previsione della fede sulla base
delle opere, noi dobbiamo osservare che prognosin può essere inteso in due sensi: o teoricamente o praticamente.
Nel primo senso, il termine prognosis, è inteso per la semplice conoscenza delle cose future
da parte di Dio, cioè indica la "prescienza", ed è un'attività dell'intelletto
divino.
Nel secondo senso, il termine intende l'amore pratico (azione pratica), e il
decreto che Dio stabilisce a proposito della salvezza di particolari persone,
dunque il riferimento è alla volontà di Dio. In questo senso, la conoscenza
è spesso sinonimo di consenso e approvazione (Salmo 1:6; Giovanni 10:14; 2 Timoteo
2:19). Dunque ginoskein significa non solo "conoscere", ma anche "conoscere
e giudicare una cosa" (ad esempio, il Plebiscitum non è la conoscenza
del popolo, ma deriva dal verbo "scisco", che significa "decretare
e determinare").
Quando la Scrittura usa la parola prognosis per la dottrina della predestinazione, non e il primo senso che
è chiamato in causa (cioè la mera preconoscenza di Dio tramite cui egli prevede
la fede e le opere degli uomoni):
(1) Poichè quello che Lui preconosce anche lo riprova, mentre qui si tratta
della preconoscenza in relazione agli effetti.
(2) La sola preconoscenza non è la causa delle cose, nè impone metodo o ordine
su di esse, ma le trova già formate (contrariamente a come succede nella catena
degli eventi della salvezza).
(3) Perchè niente potrebbe essere previsto da Dio, se non ciò che Lui stesso
garantisce e deriva dalla predestinazione, come fanno gli effetti alla causa;
nè precedono la predestinazione come sua causa, come sarà dimostrato in seguito.
E' questa la "preconoscenza pratica" (cioè l'amore e l'elezione di
Dio), che però non dobbiamo supporre essere senza motivo (alogon),
sebbene le ragioni della Sua saggezza possono sfuggirci (nella stessa maniera
Cristo è detto essere stato preconosciuto [proegnosmenos], cioè preordinato da Dio "prima della fondazione
del mondo" 1 Pietro 1:20).
Ancora nella benevolenza e nella "preconoscenza
pratica" di Dio, distinguiamo:
(1) l'amore e la benevolenza con cui Lui ci persuade;
(2) il decreto stesso, tramite cui Dio determina di manifestare il Suo amore
per noi, tramite la comunicazione della salvezza.
In tal modo accade che prognosis possa essere usato in un senso generale, per entrambi
i sensi (cioè per l'amore e l'elezione divine come in Rom. 8:29 e Rom. 11:2);
in un senso più stretto il termine designa l'amore e il favore che è la sorgente
e il fondamento dell'elezione. Pietro ne parla quando afferma che i credenti
sono "eletti secondo la preconoscenza" (kata prognosin), cioè secondo l'amore di Dio (1 Pietro 1:2).
Il termine ekleges ("elezione") nei luoghi in cui ricorre, non sempre
ha lo stesso significato.
Talvolta il termine denota una chiamata a qualche ufficio politico o sacro (
Saul è "eletto" [1 Samuel 10:24]; Giuda è "eletto" all'apostolato,
[Giovanni 6:70]). Altra volta designa una elezione esteriore, una separazione
da persone per entrare a far parte del patto con Dio (in questo senso il popolo
di Israele è detto essere eletto da Dio, Deut. 4:37).
Nel brano seguente il termine indica oggettivamente gli stessi eletti: "mentre
il residuo eletto (eklogh epetucen), lo ha ottenuto" (Romani 11:7); o formalmente l'atto di
elezione di Dio (tale atto è chiamato ekloghn proqesis, Romani 9:11).
In quest'ultimo caso, il termine elezione può essere considerato in relazione:
(1) al decreto antecedente (sottolineando l'eternità della sua natura);
(2) alla susseguente esecuzione (nel suo accadere nel tempo dopo la chiamata).
Cristo si riferisce a tale secondo significato in Giovanni 15:16: "Non
siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi"; e "Voi non siete
del mondo, ma io vi ho chiamati" (v. 19).
Agostino utilizza entrambe le forme (scesin): "Noi siamo stati
eletti prima della fondazione del mondo tramite quella predestinazione per la
quale Dio prevede in che modo le cose future accadranno; noi siamo scelti dal
mondo per il tramite di quella chiamata in virtù della quale Dio compie ciò
che lui ha predestinato" (Sulla Predestinazione dei Santi).
"Elezione", per la forza della parola, è più forte che il termine "predestinazione". Perchè tutti possono essere predestinati, ma non tutti possono essere eletti, perchè Colui che elegge non prende tutti, ma sceglie alcuni di mezzo ai molti. L'elezione di alcuni, implica lo scarto e la reiezione di altri: "Molti sono i chiamati", dice Cristo, "ma pochi gli eletti"(Matteo 20:16); e Paolo "il residuo eletto l'ha ottenuto, e gli altri sono stati indurati" (Romani 11:7). Così Paolo usa il verbo eklegw per designare l'elezione, il quale implica la separazione dagli altri: "Dio fin dal principio (eilato), vi ha eletti a salvezza mediante la santificazione dello Spirito e la fede nella verità (2 Tess. 2:13).
Proqesis è spesso usato da Paolo in materia di elezione per denotare
che il consiglio di Dio, non è un vuoto ed inefficace atto della volontà divina,
ma il costante, determinato e immutabile scopo di Dio (Romani 8:28; 9:11; Efesini
1:11).
Il termine proqesis è di altissima efficacia (come
gli antichi grammatici affermano) come è detto distintamente da Paolo: (kata
proqesin tou ta panta energountos) "conforme al proposito di Colui che opera tutte le cose
secondo il proposito della propria volontà" (Efesini 1:11).
Talvolta il termine è applicato all'elezione: (kata eklogen proqesis) "il proponimento dell'elezione di Dio" (Romani
9:11); e noi siamo detti "predestinati" (kata
proqesin, Efesini 1:11).
Il termine è anche connesso con la "chiamata": "che sono chiamati
secondo il suo scopo" (tois kata proqesin kletois, Romani 8:28), poichè tanto l'elezione quanto la chiamata
dipendono e sono fondati sullo scopo di Dio.
Ora sebbene tutte queste parole siano spesso
impiegate in modo promiscuo, pure sono frequentemente distinte; non senza ragione
esse sono usate dallo Spirito Santo, per denotare le svariate situazioni (sceseis) di quel decreto di Dio che non può essere spiegato appropriatamente
con una sola parola.
Infatti il decreto può essere concepito:
1) in relazione al principio da cui promana;
2) in relazione all'oggetto verso cui è diretto;
3) in relazione ai mezzi tramite i quali è compiuto.
Riguardo al punto 1) proqesis o eudokias (che denota il consiglio e il gradimento di Dio) sono intesi
a designare la prima causa dell'azione.
Riguardo al punto 2) prognosis o ekloge (concernono la separazione
di alcune persone da altre, nell'opera della salvezza.
Riguardo al punto 3) proorismos è usato per indicare i mezzi preparati da Dio
per comunicare la salvezza.
Riassumendo: Proqesis si riferisce al fine; prognosis all'oggetto; proorismos ai mezzi; prodiesis alla certezza dell'evento; prognosis ed ekloge alla individualità e distinzione di persone; proorismos all'ordine dei mezzi. In tal modo l'elezione è certa
e immutabile per proqesin; determinata e definita prognosin; ordinata per proorismon.
Vi sono tre gradi, se ci è consentito di
esprimerci in tale maniera, per indicare l'operato di Dio nel suo svolgimento
temporale: perchè come noi saremo glorificati con il Padre, redenti dal Figlio
e chiamati attraverso lo Spirito Santo, allo stesso modo il Padre determina
da tutta l'eternità di glorificarci insieme a se stesso, questa è la prothesis. Lui ci elegge nel suo Figlio, questa è la prognosis. Lui ci predestina alla grazia e al dono dello Spirito
Santo (che suggella l'immagine del Figlio in noi, attraverso la Sua santità
e la Sua sofferenza sulla croce), questo è il proorismos.
Poichè come il Padre invia il Figlio, allo stesso modo il Figlio e il Padre
inviano lo Spirito Santo. E vicevera, lo Spirito ci conduce al Figlio, e Il
Figlio ci conduce al Padre.
I termini tramite cui la predestinazione della membra è descritta, sono impiegati anche per descrivere la predestinazione del capo. Riguardo a Cristo prothesis è usato da Paolo: (Cristo) "il quale Iddio ha prestabilito per essere la propiziazione" (on proeqeto ilastion, Rom. 3:25); per prognosis abbiamo: (Cristo) "ben preordinato prima della fondazione del mondo" (proegnwsmenou men pro katabolhs kosmou, 1 Pietro 1:20); per proorismos, abbiamo non solo il brano dove Cristo è detto essere orisqeis il Figlio di Dio (Rom. 1:4), ma anche il brano dove la Sua morte è detta essere accaduta per il determinato consiglio di Dio e per predestinazione (orismenh boulh kai prognwsei), e che dunque sarebbe accaduta qualsiasi cosa fosse stata compiuta da Erode o Ponzio Pilato (Atti 2:23).