Dualismo e Monismo, Motivo di Fondo e Stoicismo
di Domenico Ianone
Paolo visitò Atene e la trovò piena di idoli (Atti 17:16). Ad Atene egli incontrò filosofi di scuola epicurea e stoica e ad entrambi i gruppi chiese di ravvedersi dal peccato di idolatria, anche se apparentemente nessuno di essi aveva molto a che fare con gli dèi greci tradizionali. Paolo evidentemente riteneva che il materialismo panteista degli storici e l’atomismo degli epicurei non fossero molto migliori dell’adorazione di Zeus o Apollo. Infatti ritenere che il mondo sia governato da un fato impersonale (Stoicismo) o da un impersonale e casuale movimento di atomi (Epicurei), e non da un Dio personale è soltanto un ulteriore modo per porre la creatura al posto del creatore. Tutte le scuole filosofiche greche avevano molto in comune; nessuna di esse credeva al Dio della Bibbia, a dispetto della rivelazione generale. Nei loro scritti infatti è sempre negata la possibilità di spiegare "teisticamente" l’universo. Ciò conduceva inevitabilmente a ritenere che ogni cosa potesse essere spiegata facendo ricorso esclusivamente all’intelligenza umana. Nessun greco credeva che il mondo fosse stato "creato" e diretto da un Essere personale ed assoluto. Platone ed Aristotele insegnavano l’esistenza di un essere assoluto ma esso era del tutto impersonale, mentre i cosiddetti dèi omerici erano personali ma non assoluti. L’unico assoluto per i greci era il "fato" simboleggiato dalle Moire, ma anche in questo caso abbiamo a che fare con un essere impersonale. Nelle tragedie il fato governa non solo la vita ama anche la morte. Nel medesimo tempo i greci credevano che la vita fosse un principio informe ed inarrestabile governante tutoo quello che si presenta in forma corporea. Dooyeweerd afferma a proposito di questo che la religione greca pre-omerica:
…deificava il perenne flusso della vita organica, che sgorga dalla madre terra e non può essere connesso a nessuna forma individuale. Di conseguenza le deità di tale religiosità sono a-morfe. E’ da questo informe e perenne flusso di vita organica che le generazioni di esseri perituri si origina periodicamente, la cui esistenza, limitata da una forma corporea, è soggetta all’orribile fato della morte, chiamato dai greci con il termine anangke o heimarmene tuche. Tale esistenza in una forma limitata era considerate una ingiustizia poichè essa è obbligata a sostenersi a prezzo della vita di altri esseri di modo che la vita di uno è la morte di un altro. Dunque tutta la vita che si fissa in una figura individuale è vendicata dallo spietato fato della morte secondo l’ordine del tempo.
Ma come possono essere riconciliati questi due principi, il fatalismo con la corrente della vita? Tenerli assieme conduce ad una visione del mondo caratterizzata dall’instabilità. Né il fato, né la vita offrono alcun senso al processo storico. Le cose semplicemente si presentano (flusso vitale) oppure vengono fatte accadere senza alcuno scopo razionale o morale (caso). Ciò che risulta è un universo senza scopo, bontà o amore. Lo stoicismo tenta di sfuggire a tale insensatezza.
Lo "stoicismo" deriva il proprio nome dal portico dipinto (Stoà Poikile) che Zenone di Cizio scelse nel 300 a.C. per fondare la sua scuola ad Atene. Zenone si concentrò su questioni di logica, fisica ed etica mettendo a punto la nozione di bene come accordo pieno della ragione dell’individuo con l'ordine razionale dell’intero universo. Per gli stoici la filosofia è simile ad un uovo in cui la logica corrisponde al guscio, l'albume alla fisica e il tuorlo all'etica. Per gli stoici non esiste "trascendenza", in breve secondo il loro modo di vedere peccatore, non vi è un dio personale al quale sottomettersi. Alle loro menti, tutto appare essere "materiale" ed "impersonale". Essi concepiscono la materia come una sostanza dinamico-sensitiva, divisibile all’infinito allo scopo di mescolarla con una sostanza allo stesso titolo materiale da loro chiamata "Anima". Tutto il reale, in quanto materiale è sostanzialmente omogeneo (monismo).
"Essendo la sostanza (ousía) delle cose che sono, affermano, incapace di darsi da sé movimento e figura, ha bisogno di essere mossa e configurata da una qualche causa. E per questo, come avendo osservato una stupenda statua di bronzo desideriamo saperne l'artefice perché la materia di per sé è incapace a muoversi, così anche guardando la materia dell'universo che si muove e si trova ad essere in forma e in ordine, è ragionevole che indaghiamo la causa che la muove e la conformi in molte specie. E questa è plausibile che non sia nient'altro che una potenza che si diffonde per essa, come l'anima si diffonde in noi. [...] Questa potenza o moverà dall'eternità o da un certo tempo: ma da un certo tempo non potrà muovere: infatti non ci sarà una qualche causa del fatto che essa muova da un certo tempo. Dunque la potenza che muove la materia è eterna e la conduce ordinatamente alle nascite e alle trasformazioni: cosicché sarebbe dio." (SVF II.311).
Tutti i fenomeni e i processi naturali sono governati da un principio intelligente-provvidenziale (physis, lógos, pneuma, puros), di natura materiale, che ha lo scopo di rendere il resto della materia attiva, viva e orientata finalisticamente. Per tale motivo è possibile affermare che l'universo è "divino". Il principio (forma) che anima la materia è un principio divino, pertanto dio è natura, destino e provvidenza. La realtà è allora una commistione e compenetrazione di un principio attivo, ragione e anima, e di uno passivo, la materia. In realtà tale concezione, nonostante la volontà di "monismo" al quale intenderebbe mettere capo, non esorbita dal motivo di fondo "materia-forma". Risulta infatti impossibile sottrarsi alla conclusione che l’universo veda da una parte la materia informe e dalla’altra il principio ordinatore-formale del logos. Il logos poi non è sullo stesso piano di importanza del resto della materia, avendo caratteristiche di tipo "animativo" e "legislativo", non diversamente dalle forme platoniche ed aristoteliche..
"Essi ritengono che i princìpi di tutte le cose siano due: quello attivo e quello passivo. Quello passivo è la sostanza senza qualità (ápoios ousía), la materia; quello attivo è il logos che è in essa, il dio. Questo infatti essendo eterno produce le cose singole diffondendosi in tutta la materia." (SVF II.300).
L'intero cosmo a causa di tale principio ordinatore, si configura come un organismo ben ordinato ed eterno, in cui ogni parte svolge una sua funzione e ogni fenomeno ha un suo valore. Questo insieme è organizzato secondo la ben nota scala naturale dell’essere, che partendo dai corpi più elementari, giunge agli uomini. Gli stoici si ritenevano materialisti, poiché affermavano che solo gli oggetti fisici possedevano realtà, anche se ponevano delle differenze tra tali oggetti, ad esempio l’anima era fatta di materia finissima, mentre le roccie erano composte di materia pù grossolana. In tale ottica anche le virtù erano concepite come un alcunché di materiale, e potevano mescolarsi con la materia dell’anima. Gordon Clark suggerisce che per gli stoici la "materia" avesse molto a che fare con un "campo di forze". Il logos cosmico non opera in modo cieco e irrazionale, ma è sottomesso ad una legge intelligente, che orienta nel modo migliore possibile le vicende del mondo. Esso dunque si identifica con la "provvidenza" (prónoia) e lascia anche lo spazio per le pratiche divinatorie. Allora come spiegare nell’universo regolato dalla provvidenza la presenza del male? Una risposta sottolinea l'inseparabile connessione tra bene e male:
Certamente niente è più stolto di chi pensa che possano esistere i beni se non ci fossero anche i mali. Ora, siccome i beni sono contrari ai mali, necessariamente devono esserci sia gli uni sia gli altri in reciproca opposizione, e possano sussitere solo grazie ad uno sforzo, oserei dire ad un tempo vicendevole e contrario. In che modo potrebbe esserci senso della giustizia, se non ci fossero le offese? o che cos'altro è la giustizia se non la privazione di ingiustizia? Allo stesso modo, come potrebbe intendersi la fortezza se non per opposizione alla viltà? come la temperanza, se non dall'intemperanza? Contemporaneamente ci sono beni e mali, felicità e disgrazia, dolore e piacere. Infatti l'uno è legato all'altro, come dice Platone, per i vertici opposti: se togli l'uno, togli anche l'altro (SVF II.1169).
Un mondo con beni ma senza mali sarebbe insomma inconcepibile. Altre risposte al medesimo problema entrano in dettagli e notano come quelli che vengono percepiti come mali sono in realtà l'inevitabile prezzo da pagare per ottenere un bene maggiore, o anche per stimolare a quel bene sommo che è la virtù. Il problema della giustificazione del male (che da Leibniz verrà chiamato "teodicea") rimanda così naturalmente al problema etico come al suo necessario completamento.
Gli stoici risolvono il difficile rapporto tra libertà dell’uomo e necessità elaborando un concetto di predestinazione analogo alla teoria della conoscenza. L'essere umano è portatore di una scintilla del fuoco eterno del lógos, ma pur essendo destinato ad agire in un certo modo, è libero di scegliere se essere coerente con la sua natura razionale o se abbandonarsi alla degenerazione della passione. La virtù consiste dunque nell'agire con coerenza, scegliendo ciò che è conveniente alla propria natura. Per la logica stoica, la conoscenza umana è resa possibile dalle impressioni che le cose lasciano sui nostri sensi. L'essere umano ha il compito di valutare se acconsentire o no all'impressione avvertita. Le impressioni possono produrre rappresentazioni catalettiche (la cui validità si fonda sull'evidenza dei fatti) oppure rappresentazioni non catalettiche (la cui validità è stabilita dall'anima-lògos che può dare o rifiutare il suo assenso a ciò che l'immagine propone. Per quanto riguarda l'etica ci sono due analogie con quella epicurea: l'importanza assegnata alla vita pratica e l'idealizzazione della condizione di atarassia e di apatia dell'essere umano. Gli stoici rifiutano però l'identificazione epicurea della felicità con il piacere e la concezione dell'uomo come essere istintivamente portato al proprio benessere. Per gli stoici l'uomo è soprattutto un essere razionale e il fine fondamentale è quello di vivere conformemente alla natura e di adeguarsi nelle azioni alla ragione universale che governa tutto. Il criterio della condotta umana deriva dall'ordinamento razionale e divino dell'universo: bisogna accogliere ciò che è conforme alla natura e respingere ciò che è contrario. Essere virtuosi significa quindi adeguarsi alla ragione universale, mentre le passioni sono nocive perché ostacolano la ragione. Tutto ciò che accade non è casuale ma è dovuto all'ordine divino, quindi ciò che noi possiamo fare è dominare la nostra disposizione d'animo per meglio adeguarci alla ragione universale. Nonostante l'accento posto sulla predestinazione, gli stoici sono fra i primi a parlare dell'esistenza nell'uomo di un'effettiva capacità di scelta e di azione autonoma e responsabile. È Crisippo a risolvere il rapporto fra il destino che tutto determina e il libero arbitrio distinguendo due ordini di determinazioni: le cause lontane (che preparano e favoriscono un certo evento, non sono in potere dell'uomo) e le cause prossime (che realizzano concretamente l’evento e sono in potere dell'uomo), distinzione che sarà ripresa dallo stesso Calvino nelle Istituzioni.