Anselmo d'Aosta

di Domenico Iannone

Anselmo d’Aosta (Aosta 1033-Canterbury 1109), ricevette la prima educazione religiosa dalla madre, ma i contrasti con il padre lo allontanarono dalla famiglia ancora in giovane età. Rifugiatosi nel monastero di Bec, in Normandia, tre anni dopo (1066) diventava priore e direttore della scuola del monastero, acquistando un immenso ascendente per acutezza d'ingegno e straordinaria affabilità; nel 1078 fu eletto abate. Chiamato in Inghilterra da Lanfranco di Pavia, vi riorganizzò la vita monastica e nel 1093 fu eletto arcivescovo di Canterbury. Con grande energia intraprese la riforma dei costumi e si oppose all'invadenza del potere politico nell'ambito religioso, in un drammatico scontro con i re Guglielmo il Rosso ed Enrico, ma alla fine si riconciliò con Enrico e passò gli ultimi suoi anni fra gli studi e il lavoro pastorale. Il pensiero di Anselmo è anzitutto quello di un teologo. All'interno della fede tuttavia l'indagine razionale è avvertita come un elemento indispensabile se in accordo con i dati della Rivelazione. Credo ut intelligam (credo per capire) è la formula con cui Anselmo sintetizza il proprio metodo. Nel trattato Monologion egli elabora un insieme di argomenti che partendo dal molteplice, conduce all'ammissione di un essere Uno e supremo. Anche la relativa bontà delle cose suppone una perfezione e una bontà assoluta originaria. Inoltre tutto ciò che esiste, suppone un essere unico e perfetto che a tutte le cose doni l'esistenza. Il carattere platonico di questi argomenti è chiaro: la perfezione finita non può né esistere né essere intesa se non per partecipazione di una perfezione somma. Nel trattato Proslogion, Anselmo intende dimostrare che Dio esiste e che Lui è "quello che crediamo". Dio è quella cosa di cui nulla può pensarsi di più grande", il Salmo 14:1 afferma: "lo stolto dice in cuor suo: Dio non esiste", ma lo stolto intende il senso della frase "qualcosa di cui nulla può pensarsi di più grande", evidenziando che "ciò che intende è nel suo intelletto, anche se non intende che quella cosa esiste". Ciò di cui non si può pensare nulla di più grande non può esistere solo nell’intelletto, e non può essere pensato non esistente, perché in tal modo non sarebbe "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Tutte le cose contingenti in quanto tali possono essere pensate non esistenti. Solo Dio esiste e non può essere pensato non esistente, mostrando che ciò che l’intelletto prova è vero in quanto coincide con ciò che è creduto. Se Dio esistesse soltanto come tutti gli altri esseri, non soltanto non esisterebbe come Dio, ma non esisterebbe affatto. Egli è l’essere necessario e il fondamento degli enti contingenti: tutto esiste in Lui e per Lui. Per questo non può essere pensato non esistente.

Dopo aver parlato degli attributi di Dio, Anselmo si concede una pausa mistica e contemplativa (capp. XIV-XVII) e si domanda come sia possibile che, pur avendo trovato Dio, la sua anima non senta ciò che ha trovato. Il fatto è che l’anima "si rende conto che non può vedere di più a cagione delle proprie tenebre", contemporaneamente ottenebrata dalla sua debolezza e abbagliata dal fulgore divino, oscurata dalla cortezza della sua vista e schiacciata dalla immensità di Dio, che non solo è ciò di cui non può pensarsi il maggiore, ma anche più grande di tutto ciò che può essere pensato. "Poiché infatti si può pensare che esista una tale realtà, se tu non fossi questa realtà, si potrebbe pensare qualcosa di più grande di te. E ciò non è possibile.". Dio è luce inaccessibile, troppo grande per l’occhio della mente umana, il quale tuttavia tutto quello che vede lo vede per effetto di quella luce. Analogamente l’occhio corporeo vede per via della luce del sole che a sua volta non può essere scorto. Dio dunque è insieme vicino e lontano rispetto all’anima che può esclamare: "sei dentro di me e intorno a me, e non ti sento.". L’anima è ancora immersa nelle tenebre e nell’infelicità, i suoi sensi "sono induriti, ottusi, otturati dalla vecchia malattia del peccato": per questo, pur esercitando i suoi sensi, non coglie quelle qualità (armonia, odore, sapore, dolcezza, bellezza, morbidezza) che Dio possiede in modo ineffabile.

Il monaco Gaunilone in difesa dello stolto

Gaunilone fraintende in maniera grave la prova di Anselmo poiché la traduce "ciò di cui non si può pensare nulla di più grande" con "ciò che dovrebbe essere maggiore di tutti", ponendo Dio al livello delle cose. Gaunilone attacca la distinzione tra essere nell’intelletto ed essere nella realtà, negando che si possa dare passaggio dal primo al secondo piano. Se con Anselmo si acconsente ad ammettere che non esiste distinzione tra essere nell’intelletto ed essere nella realtà, si deve giungere alla conclusione assurda dell’esistenza di tutto ciò che è nella mente, comprese le cose false e inesistenti. Dio non posso pensarlo se non in base alle parole e "con le sole parole non si può, o a mala pena si può rappresentarsi qualcosa di vero, perché quando si pensa così non si pensa la parola stessa, ossia il suono delle lettere o delle sillabe, ma il significato della parola udita"; orbene non è possibile comprendere il significato dell’espressione "ciò di cui non si può pensare nulla di più grande" alla stregua degli altri enti reali. A questo punto Gaunilone porta il noto esempio dell’isola beata, "piena di una inestimabile abbondanza di ricchezze e di delizie...[che] supera tutte la altre terre abitate per abbondanza di beni.". Se uno mi parla di questa realtà, io comprendo le sue parole. Ma se poi aggiunge che non posso dubitare della sua esistenza dato che ne ho in mente l’idea e che è necessario che quest’isola esista perché, in caso contrario, qualsiasi terra esistente sarebbe migliore di lei e quell’isola già pensata come migliore non sarebbe più tale, allora questa persona o scherza o è uno sciocco "a meno che non mi faccia vedere che l’eccellenza di quell’isola è una cosa reale e non è come le cose false e incerte che possono essere nel mio intelletto.". Del resto, insiste Gaunilone, non si può affermare che l’idea di "ciò di cui non si può pensare nulla di più grande" sia vera prima di averne dimostrata l’esistenza o con una dimostrazione più adeguata di quella offerta da Anselmo o mediante l’accettazione della rivelazione. In conclusione Gaunilone, mentre apprezza il Proslogion per le tante verità "fragranti e quasi intimamente profumate di pio e santo affetto" che vi sono contenute, si augura che possano essere portati argomenti ben più solidi di quello offerto qui da Anselmo.

Risposta di Anselmo

Se l’espressione "ciò di cui non si può pensare il maggiore" non fosse realmente compresa, ciò vorrebbe dire che o Dio non è "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore", o è linguisticamente incomprensibile, o che questa idea non è nell’intelletto. Ma la stessa fede di Gaunilone serve a provare la falsità di queste tre ipotesi per cui resta confermato che "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore" è espressione compresa e questa idea è presente nell’intelletto. Quanto all’obiezione che dal fatto che si intenda l’espressione "ente di cui non si può pensare il maggiore" non se ne deduce la presenza dell’idea nell’intelletto, e che dall’eventuale presenza dell’idea nell’intelletto non se ne deduce l’esistenza, Anselmo risponde (anticipando Leibniz): "se può essere pensato esistente, è necessario che esista". Infatti, a differenza di tutti gli altri enti che sono contingenti e hanno un inizio, solo "ciò di cui non si può pensare il maggiore" deve essere pensato senza principio; se non può essere pensato esistente e non esistente, dalla possibilità della sua esistenza se ne deduce la relativa necessità (come dire: se Dio è possibile Dio esiste, ma Dio è possibile, dunque Dio esiste). Inoltre si conferma la liceità del passaggio dal piano del pensiero a quello dell’esistenza poiché se "ciò che non si può pensare il maggiore" non esistesse in entrambi i piani non sarebbe "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Esso dunque resta ben distinto da tutti gli altri enti contingenti che possono essere pensati e non esistere, così come esistere e non essere pensati. Anche supponendo che pur essendo pensato non esista, si cadrebbe in contraddizione, poiché "tutto ciò che può essere pensato e non esiste, se esistesse non sarebbe ciò di cui non si può pensare il maggiore" e dunque se fosse "ciò di cui non si può pensare il maggiore" non sarebbe "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Inoltre tutto ciò che non è totalmente in un luogo o in un tempo, anche se è, può essere pensato come non esistente. Invece "ciò di cui non si può pensare il maggiore" se è, non può essere pensato come non esistente. Altrimenti, se è, non è "ciò di cui non si può pensare il maggiore", il che è contraddittorio. "Non può darsi dunque che non sia tutto in un determinato luogo o in un determinato momento, ma è tutto sempre e dovunque.".

Quanto all’argomento, contestato da Gaunilone, secondo cui anche lo stolto intende la frase "ciò di cui non può pensarsi il maggiore", e se la intende ciò significa che ne possiede l’idea nell’intelletto, Anselmo ne ribadisce la validità e lo difende dall’osservazione che, sebbene intesa, non è detto che sia nell’intelletto. "Come infatti ciò che è pensato è pensato col pensiero, e ciò che è pensato col pensiero è nel pensiero", lo stesso vale per l’intelletto. "Cosa vi è di più chiaro?". Se poi si afferma la presenza nell’intelletto di "ciò di cui non si può pensare il maggiore", si può affermare che sia in realtà; "e se si può, chi lo pensa esistente in realtà non pensa forse qualcosa di maggiore di quello stesso esistente nel solo intelletto?". Ora, certamente, nessuno considera ciò di cui si può pensare il maggiore equivalente a ciò di cui non si può pensare il maggiore: pertanto resta confermato che "ciò di cui non si può pensare il maggiore" non può essere solo nell’intelletto: "se infatti fosse solo nell’intelletto sarebbe ciò di cui si può pensare il maggiore, il che è contro l’ipotesi".

Quanto poi all’argomento dell’isola perduta, esso è inapplicabile a "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore" che risulta del tutto eterogeneo a ogni altro ente contingente. Anselmo può dunque concludere questa prima parte confermando la validità del suo argomento uscito vincitore dagli attacchi di Gaunilone: "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore" non può essere pensato non esistente, altrimenti non potrebbe esistere in alcun modo. E se uno dice di pensarlo non esistente, o quando lo pensa lo pensa come "ciò di cui non si può pensare il maggiore" o non lo pensa. Se non lo pensa, non può poi concludere che non esiste dato che non si può pensare che non esiste ciò che non si pensa. Se lo pensa, deve pensarlo come necessariamente esistente e non alla stregua degli altri enti contingenti che hanno un principio e una fine.

Anche la sostituzione di pensare con conoscere proposta da Gaunilone viene respinta da Anselmo che conferma la formula: non può essere pensato non esistente. Nel caso la sostituzione fosse stata accolta si sarebbe incorsi nell’obiezione che nulla di ciò che esiste può essere conosciuto come non esistente, dato che è falso che ciò che è non sia. "E perciò non è proprio di Dio il non poter essere conosciuto come non esistente". Ma se si può conoscere che non esiste una delle cose che invece esistono con certezza, a maggior ragione si potrà conoscere che non esistono anche le altre cose certe. Ma questa obiezione non vale per il pensare, poiché anche se nessuna cosa esistente potesse essere veramente conosciuta come non esistente, tutte però possono essere pensate tali, all’infuori del sommo ente. Possono essere pensate non esistenti le cose contingenti che hanno un inizio e una fine, ma non "quell’essere in cui non vi è né inizio né fine né congiunzione di parti e che il pensiero trova sempre e dappertutto.". Dunque nulla può essere non esistente, mentre è conosciuto esistente, mentre tutto ciò che non è l’essere di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente anche quando si conosce che esiste (o, come spiega S. Vanni Rovighi, possiamo pensare che ciò che sappiamo esistere in un certo momento non sia o non sia stato, ma non possiamo pensare che ciò che sappiamo esistere non sia mentre è). Solo Dio, come si è argomentato, non può essere pensato non esistente.

Con questo Anselmo ritiene di aver risposto sufficientemente a Gaunilone. Affrontando ancora alcune questioni di dettaglio, Anselmo rimprovera il suo obiettore di aver confuso l’espressione "ciò di cui non si può pensare il maggiore" con "l’ente più grande di tutti". Sul piano degli enti, si può infatti confutare l’affermazione circa la non esistenza, o la possibilità della non esistenza, o la possibilità del pensare non esistente l’ente di cui non si può pensare il maggiore, dato che "ciò che non esiste può non esistere; e ciò che può non esistere può essere pensato non esistente". Ma proprio questo è il punto: ciò che può essere pensato come non esistente, se esiste, non è ciò di cui non si può pensare il maggiore. E se esiste, non sarebbe ugualmente ciò di cui non si può pensare il maggiore. Ma è insostenibile che "ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore" non sia tale, se esiste, o che, se esistesse, non sarebbe ciò che afferma la sua definizione. " È dunque manifesto che non è inesistente né può non esistere o essere pensato inesistente. Se fosse altrimenti, infatti, non sarebbe ciò di cui non si può pensare il maggiore: e se fosse tale, non sarebbe tale". Ma quando diversamente si considera l'ente maggiore di tutti, questo ragionamento non risulta applicabile: infatti l'essere maggiore di tutti può essere pensato inesistente, e ciò che può essere pensato inesistente non è chiaro se possa essere necessariamente e inequivocabilmente l'ente maggiore di tutti; così come non è indubitabile che se vi è un ente siffatto questo si identifichi con ciò di cui non si può pensare il maggiore (mentre ovviamente ciò di cui non si può pensare il maggiore è di certo l’ente maggiore di tutti). Inoltre, dato l’ente maggiore di tutti, tuttavia esso può essere pensato non esistente così come se ne può pensare uno ancora maggiore, anche se questo non esiste. Invece per quanto concerne l’ente di cui non si può pensare il maggiore è sufficiente l’espressione linguistica per dedurne l’esistenza (o, come si dice poco oltre, "esso dimostra sé per se stesso"). Da queste considerazioni risulta dunque la gravità del fraintendimento di Gaunilone ed è confermata la validità dell’argomento anselmiano. Quanto all’obiezione che anche una cosa falsa o inesistente può essere intesa ed essere nell’intelletto come l’ente di cui non si può pensare il maggiore, Anselmo fa rilevare che nel suo argomento era sufficiente far presente all’inizio che "quella realtà era in qualche modo intesa e nell’intelletto, perché si esaminasse poi se fosse solo nell’intelletto, come le cose false, o anche nella realtà, come le cose vere". Non regge poi neppure l’obiezione che sostiene l’inutilità dell’argomento perché se è impensabile che, compresa l’espressione "ciò di cui non si può pensare il maggiore", sia logicamente impossibile negarne l’esistenza, sarà allora impossibile negare anche l’esistenza di Dio. Infatti con quella espressione si dà una qualche nozione di Dio (di cui lo stolto sembra privo) e con la stessa si fa capire, sia pure approssimativamente, che cosa Dio è: ebbene, è proprio in tal modo che si induce a capire come sia necessario ammetterne l’esistenza. Quando ancora Gaunilone obietta che ciò di cui non possiamo pensare il maggiore non può essere nel nostro intelletto perché non corrisponde a nessun ente conosciuto secondo genere e specie, egli sembra dimenticare che noi possiamo legittimamente congetturare ciò di cui non possiamo pensare il maggiore da ciò di cui possiamo pensare il maggiore, così come possiamo procedere analogicamente dai beni inferiori a quelli superiori. Ciò del resto è confermato dalla Scrittura (cfr. Ep. ai Rom., I, 20) che ci autorizza a scorgere le perfezioni invisibili di Dio dagli effetti del mondo creato. In ogni caso, non è vero che intendiamo la parola "ineffabile" anche se l’ineffabile non può essere detto? E lo stesso non vale per l’"impensabile"? Dunque quando si dice "ente di cui non si può pensare il maggiore" certamente si può pensare e comprendere quella realtà di cui non si può pensare il maggiore, e anche lo stolto non sarà così impudente da sostenere che non intende o non pensa quel che dice. Infatti, se uno nega che esiste ciò di cui non si può pensare il maggiore, deve intendere la negazione. Ma quest’ultima suppone l’affermazione (la negazione è negazione di qualcosa): dunque chi nega, implicitamente ammette di intendere e pensare ciò di cui non si può pensare il maggiore. Dunque mentre si pensa ciò di cui non si può pensare il maggiore, se si pensa che esso non possa esistere, vuol dire che non si pensa ciò di cui non si può pensare il maggiore. Ma una cosa non può essere pensata e insieme non essere pensata. In conclusione si conferma che chi pensa ciò di cui non si può pensare il maggiore lo pensa come necessariamente esistente. "Tanta è infatti la forza contenuta nel significato del termine ‘ciò di cui non si può pensare il maggiore’, che appena si capisce o si pensa ciò che si è detto, necessariamente si dimostra che esso esiste, e che si identifica con ciò che si crede dell’esistenza divina".