Annotazioni al brano di 1 Corinzi cap.11: la questione del velo delle donne.

Esponiamo di seguito il contenuto delle due interpretazioni che si contendono il campo per quanto concerne il senso da dare a questa prassi che molti evangelici occidentali, comunque avvezzi ad un costume simile praticato nella chiesa cattolica e in molte comunità pentecostali, considerano tuttavia singolare.
Entrambe le interpretazioni, partono dal presupposto che in questione è il contegno che le donne debbono avere tanto in privato, quanto nelle assemblee pubbliche in relazione alla preghiera e alla profezia. Secondo una delle interpretazioni (diffusa ampiamente in ambito pentecostale), le donne sono tuttora, indistintamente tenute a coprirsi il capo in segno di sottomissione all'uomo, quando pregano o profetizzano (lasciamo fuori questione il senso da dare al termine "profetizzare"). Tale forma di ossequio, alla quale sarebbero tenute tanto le donne maritate quanto quelle nubili, è richiesta in virtù di un principio stabilito inderogabilmente da Dio: alla donna in quanto tale (sposata o meno), competerebbe sempre un ruolo di subordinazione all'uomo (la figlia al padre, la donna sposata al marito, ect.). Tale situazione è iscritta nell'ordine naturale dei rapporti che debbono intercorrere tra uomo e donna, essendo stato creato "prima" l'uomo e soltanto "dopo" la donna. A sostegno di tale principio si fa ricorso al brano di 1Corinzi 11:3: "... il capo di ogni uomo è Cristo, il capo della donna è l'uomo, il capo di Cristo è Dio". La donna deve sottomettersi all'uomo in virtù della gerarchia discendente: Dio Padre, Cristo, uomo, donna. Come l'uomo è sottoposto in ogni cosa a Cristo, allo stesso modo la donna deve essere sottomessa all'uomo. Tale principio è confessato dalla chiesa, con l'adozione del velo. Paolo confermerebbe tale assunto, lì dove afferma: "Ogni donna che prega e profetizza senza avere il capo coperto fa disonore al suo capo" (11:5). Il "capo" che la donna disonorerebbe, non mettendo il velo sulla propria testa, è l'autorità maschile che in quel momento è preposta sulla sua vita: il padre, il marito, il pastore ect. Non senza rilievo è il fatto che Paolo affermi: "la donna, a motivo degli angeli, deve avere sul capo un segno dell'autorità da cui dipende" (1Corinzi 11:10). Tale brano darebbe un motivo ulteriore alla necessità per la donna di velarsi: gli angeli di Dio presenti in modo invisibile nei luoghi dove le credenti pregano, non vanno scandalizzati con comportamenti non ispirati a santità ed umiltà.

E' però possibile seguire un percorso interpretativo alternativo. In tutti i brani paolini, nei quali ricorre il termine "donna" (greco: ghnh) questo ha sempre il significato di "moglie" e non di "donna in generale" (sembrerebbe fare eccezione il brano di Galati 4:4 "ma quando giunse la pienezza dei tempi, Iddio mandò il suo Figliuolo, nato di donna, nato sotto la legge," ma Paolo sembrerebbe stia qui non usando la propria terminologia consueta citando piuttosto una formula confessionale, in uso nella chiesa primitiva). Se le cose stanno in tale modo, il brano di 1 Cor. 11-2-6 non risulta dissimile nella sua essenza da quello di 1 Cor. 14:34-35 nel quale il termine "donna" si presta senza possibilità di equivoci, sulla base del contesto, ad essere tradotto "moglie". Secondo il costume greco-romano, la donna con il matrimonio era tenuta a coprirsi in pubblico il capo con un velo, e ciò allo scopo di esprimere il proprio status sociale di donna non più libera. Le donne credenti e sposate di Corinto avevano dismesso l'uso di tale copricapo, dando particolarmente a vedere tale scelta quando "pregavano e profetizzavano" (11:5). Probabilmente le donne sposate della comunità di Corinto, stavano cercando di emanciparsi dall'obbligo di rispettare i propri mariti, in nome di un frainteso principio di libertà spirituale (probabilmente lo stesso principio che portava tale comunità ad avere altri problemi quali: fazioni 1 Cor.1:10-17; incesto 5:1-5; liti portate davanti a non-credenti 6:1-9; fornicazioni 6:13-20; idolatria 10:21; disordini nelle agapi 11:17-34; superbia nell'uso di alcuni carismi 14:1-25). La necessità di avere un velo sul capo, durante la preghiera e la profezia era teso ad esprimere in modo tangibile, in linea con le usanze sociali del tempo, la necessità per le donne sposate di Corinto (o più in generale greco-romane) di rispettare il proprio coniuge e dunque onorare l'istituzione matrimoniale. In tale ottica anche il brano di 1Corinzi 11:10 assume una diversa connotazione, infatti esso potrebbe essere tradotto: "la moglie deve avere sul capo un segno dell'autorità, a causa dei visitatori (aggelous)", le mogli che non si adeguavano ai costumi seguiti nel mondo greco-romano in relazione ai segni esteriori esprimenti rispetto nei confronti dei propri mariti, avrebbero certamente attirato il biasimo da parte di coloro che visitavano le comunità cristiane (sarebbero cioè apparse scandalose e dunque di cattiva testimonianza). Sempre sulla base di quest'ultimo brano è lecito affermare che Paolo esigeva il segno del velo, soltanto in un contesto aperto alle obiezioni da parte di "persone facili allo scandalo", mentre in qualsiasi altro contesto la moglie poteva sentirsi non vincolata. Coloro che non accettano tali conclusioni, affermano che il brano in questione:
1) non farebbe riferimento ad alcun costume di tipo storico-sociale, in quanto Paolo starebbe esigendo che le donne mettano il velo solo in occasione della preghiera e della profezia, deducendo che in tutte le altre occasioni esse potevano comportarsi come meglio credevano;
2) inoltre non viene riconosciuta alcun valore alle ragioni di tipo grammaticale, il termine "donna" significherebbe "donna in generale" e non certo "moglie". Altra questione è quella di stabilire se al giorno d'oggi esista un obbligo per le credenti sposate di adottare un segno esteriore come quello del velo, che non ha più la stessa comprensibilità che esso possedeva nel contesto sociale del mondo greco-romano ed ebraico. Che l'adozione del velo fosse legata a particolari circostanze storico-sociali è confermato, da riferimenti quali: la consuetudine per la donna matura di non tagliare i capelli essendo questa una pratica vergognosa (1 Cor. 11:6b-15 e 11:5b-6b, al momento non si dispone di fonti certe che dimostrino che il taglio dei capelli fosse la pena comminata alle prostitute), la vergogna per l'uomo di farsi crescere i capelli (1 Cor. 11:14, i greci e i romani, evitavano di farsi crescere i capelli, ritenendo questa un'usanza barbara. Gli ebrei, considerati barbari dai greci e dai romani, comunque avevano avuto e avevano molti capelloni: Absalom il figlio di Davide, Sansone, i nazirei).

Un'ultima parola va detta per quanto concerne la sottomissione della donna all'uomo. Non sempre è chiaro che il "principio" gerarchico di 1Corinzi 11:3, che afferma la sottomissione della moglie al proprio marito è esattamente speculare alla sottomissione di Cristo a Dio. La vita della Trinità è caratterizzata dall'armonia e dall'unione, ciononostante il Figlio è sottomesso all'autorità del Padre. Pertanto la donna sposata deve "far capo" al proprio marito, non diversamente da come Cristo "fa capo" al Padre. Il brano di 1 Corinzi 11:12, tempera anche l'asprezza di una errata comprensione della sottomissione della moglie al marito: "come la moglie è in relazione al marito, così il marito si completa per il tramite della moglie" (questa traduzione è più letterale di quella proposta dalla Riveduta del Luzzi). Paolo starebbe richiamando le mogli "ribelli", a quella "sottomissione" che in 1Pietro 3:3, è identificata con il rispetto dovuto al marito. Vi è qui una presentazione di quello che è l'istituto del matrimonio. Va preliminarmente chiarito che il matrimonio è un'istituzione "creazionale", ciò significa che esso è stato voluto originariamente da Dio. In Genesi 2:24 è affermato: "Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua moglie, e saranno una stessa carne.", fine del matrimonio è la creazione di un'unità composta, quella formata dall'uomo e dalla donna in comunione psico-fisica (che è lo stesso che dire "in comunione integrale"). L'unione del marito e della moglie riflette su di un piano creaturale, quella esistente tra le persone della trinità. L'uomo e la donna sono ACHAD (una carne), non diversamente da come YHWH è un (ACHAD) solo Dio (Deut. 6:4). Il termine ACHAD indica un'unità composta, diversamente dal termine YACHID che indica un'unità assoluta (Zacc. 12:10; Ger. 6:26). Nell'istituto del matrimonio si riflette lo stesso carattere di Dio, quello della inter-comunione, del suo non-essere-solo.

(autore: Domenico Iannone)